Buzzurri e grida

Per entrare in Parlamento, oltre che presentare il “biglietto” elettorale vincente, bisognerebbe sostenere con esito positivo un esamino articolato su alcune materie inerenti la politica: diritto costituzionale, storia moderna, storia dei partiti e simili. Questo eviterebbe ai parlamentari di sciorinare castronerie dovute a faziosa ignoranza. Il movimento cinque stelle, per bocca del suo leader (?) Luigi Di Maio e dei suoi esponenti di maggior spicco, continua ad affermare che gli spetti esprimere il presidente del consiglio o premier come dir si voglia: l’aver ottenuto un consenso elettorale del 32% assegna ai pentastellati questo diritto per volontà popolare.

Dove è scritto? Nella Costituzione no. Nella legge elettorale nemmeno. Nella prassi costituzionale neanche. Era un discorso vigente di fatto in regime di bipolarismo strisciante, quando cioè si pensava il sistema politico polarizzato su due schieramenti alternativi fra cui l’elettore doveva scegliere: il tal caso era quasi automatico che capo del governo fosse il leader dello schieramento vincente. Per come è impostata la nostra Costituzione (prevede un regime parlamentare e non presidenziale), per come dispone la legge elettorale attuale  (buona o cattiva, è stata approvata a larga maggioranza da precedente Parlamento), per come hanno votato gli italiani i quali hanno distribuito il voto su tre poli senza dare a nessuno dei tre la maggioranza assoluta, siamo ripiombati, volenti o nolenti, in un sistema proporzionale in cui la scelta del governo e del suo capo è demandata politicamente ai partiti ed ai loro gruppi parlamentari e costituzionalmente al Presidente della Repubblica con la consacrazione di un voto di fiducia nelle due Camere.

D’altra parte la storia repubblicana è piena di presidenti del consiglio espressione di partiti privi di grandi consensi elettorali: si pensi a Giovanni Spadolini, a Bettino Craxi, a Giuliano Amato, per non parlare dei cosiddetti tecnici come Ciampi e Monti. È quindi perfettamente inutile e fuorviante continuare a menare il can per l’aia della volontà popolare: l’elettorato non poteva votare per Di Maio premier e non ha votato nemmeno per un M5S maggioritario. Quindi la parola passa ai partiti i quali dovrebbero trovare accordi politico-programmatici tali da offrire un governo al Paese. Gli equilibri all’interno del Parlamento e della compagine governativa sono tutti da inventare. Paradossalmente se al 32% dei grillini si contrapponesse una combinazione fra centro-destra e PD con oltre il 50% dei voti (i conteggi per la verità andrebbero fatti sui numeri in Parlamento), l’alto consenso elettorale ottenuto dal M5S relegherebbe comunque tale partito al solo ruolo, seppure forte, di minoranza e di opposizione.

È giunta l’ora di lasciare perdere i conteggi e le percentuali, di passare cioè dalla democrazia dei numeri a quella dei contenuti. Invece di incartarsi in assurde pregiudiziali dal sapore populista, scendano dal pero e facciano un governo di programma e non di chiacchiere elettorali. Si tratta di un salto difficile da fare: per governare infatti occorrono i voti, ma anche una cultura di governo, che non si può improvvisare sbraitando nelle piazze e in parlamento. In questi ultimi anni grillini e leghisti hanno fatto opposizione in questo modo ed ora che non bastano più striscioni e grida si trovano a mal partito. Gli italiani hanno ascoltato queste proteste e in gran parte le hanno condivise. Ora penso che aspettino il passaggio dalle proteste alle proposte.