Il suicidio è un fatto sconvolgente

Torno con la mente (lo faccio spesso) alla morte tragica di Bianca, una mia indimenticabile zia, rimasta vedova prematuramente, colpita da una malattia senza scampo, che la distrusse psicologicamente portandola alla disperazione ed al suicidio: lei così allegra e gioiosa, decise di farla finita, lasciando tutti nel comprensibile sgomento. Ricordo il dolore pieno di nostalgia di mia madre: si rimproverava di non esserle stata sufficientemente vicina, immaginava la scena del suicidio e della sofferenza precedente al gesto estremo, visse per parecchio tempo con un senso di vuoto attorno a sé e dentro di sé, si sforzava di consolare i nipoti rimasti attoniti e sconvolti dall’accaduto.

Il suicidio è una scelta che tocca sempre i nostri nervi scoperti, che ci mette sempre e profondamente in crisi, che ci pone drammaticamente davanti alla realtà nuda e cruda della nostra esistenza, alla responsabilità sulla nostra ed altrui vita. Quando poi a togliersi la vita è un personaggio pubblico, siamo costretti a rivedere tanti nostri schemi di giudizio. Succede a Parma in questi giorni in conseguenza del gesto estremo dell’ex rettore dell’Università di Parma, Loris Borghi.

Innanzitutto voglio vedere il fatto dal punto di vista umano e religioso. Pensare alla disperazione che avrà provato mi sconvolge. Probabilmente, dopo essere stato indagato e rinviato a giudizio per reati commessi nell’esercizio della sua pubblica ed importante funzione, innocente o colpevole che fosse (in queste vicende, anche in caso di colpevolezza, oltre tutto esiste quasi sempre un miscuglio di ingenuità, di omertà, di opportunismo, di favoritismo, di pressapochismo, in cui è difficilissimo colpire nel segno) era stato o si era sentito abbandonato da tutti. Non da Dio che lo avrà accolto con tanta dolcezza. Senza indagini, senza processo, senza incriminazioni, considerando solo il bene che avrà sicuramente fatto nella sua vita di uomo impegnato soprattutto nella professione medica, nell’insegnamento, nell’università. Guardo con grande rispetto alla scelta di una persona che decide di “farla finita”, non retrocedendo fariseicamente il gesto alla follia di un momento, ma considerandola in tutto il suo drammatico significato, anche religioso: un grido di ribellione al dolore che si fa insopportabile e che solo Dio può capire, dal momento che ha deciso di condividere fino in fondo la nostra sofferenza.

Sul piano etico dobbiamo imparare molte cose: a non giudicare (chi sono io per giudicare?), lasciandolo fare a chi di dovere, a non infierire quando una persona viene colta in fallo, a prendere il meglio dalle persone, a capire i drammi altrui, a pensarci bene prima di squalificare e rottamare, a distinguere fra giudizio politico e condanna, fra critica e dileggio, fra desiderio di fare pulizia e soddisfazione nel buttare tutto all’aria, fra giustizia vera e giustizia sommaria, fra diritto di cronaca, insinuazioni e diffamazioni, fra indagini e condanne, fra avvisi di reato e sentenze.

Il rispetto per la persona non vuol dire assolvere tutto e tutti, coprire la corruzione con una vernice buonista, ma nemmeno esaltarsi al tintinnar delle manette alla ricerca sbrigativa del capro espiatorio. Il marciume nella nostra società è molto presente e diffuso, deve essere scovato e combattuto seriamente, anche andando contro corrente quando necessita, a costo di rimetterci di persona. Ciò non vuol dire, prescindendo dalle vicende giudiziarie di Loris Borghi, dare superficialmente voce e credibilità a subdole ricostruzioni della (non) verità, cedere alla malignità che può condurre a confondere la denuncia delle vere manovre di palazzo con l’invenzione di manovre di palazzo, gettare fango a raffica, farsi prendere dall’ansia del “retroscenismo” a tutti i costi ed ancor meno dal puntiglio di vedere sempre, comunque e dovunque il lato sporco della situazione.

In conclusione cito un episodio (sempre senza fare parallelismi con la vicenda giudiziaria del professor Borghi), riportato da Mattia Feltri e ascoltato nella rassegna stampa di radio radicale, da cui risulta come un vecchio contadino abruzzese, padre di Ignazio Silone, abbia rimproverato aspramente il figlio bambino allorché rise di un cencioso detenuto, che veniva condotto in manette  dai carabinieri: gli disse che non doveva ridere innanzitutto perché quella persona in catene non poteva difendersi, in secondo luogo perché forse era innocente e da ultimo in quanto era un infelice che comunque meritava rispetto. Una mirabile lezione etica sulla differenza tra giustizialismo e giustizia, tra giustizia intesa come scrupolosa ricerca della verità e sbrigativa vendetta populista, tra diritto di cronaca e gogna mediatica, tra pena carceraria e rottamazione del condannato, tra privazione della libertà e tortura, tra detenzione e recupero del detenuto.