Il dubbio poco amletico del PD

Negli anni sessanta la parola d’ordine che tutti abusavano era “discorso”, oggi è maniacalmente e fastidiosamente adottata la parola “ovviamente”. Tutte le mode, dagli abiti alle parole, rispecchiano, in un certo senso, la cultura del tempo: da quella problematica e contorta della protesta giovanile a quella superficiale e mediatica del populismo moderno. Un tempo si cercavano risposte complesse e complessive ai problemi semplici, ora si esigono soluzioni immediate e definitive per questioni di enorme portata.

Due esempi eloquenti. Se ad uno studente andava storto un esame si faceva risalire la causa al sistema scolastico tutto da rifondare e riformare; se oggi uno studente viene rimproverato si preferisce aggredire e malmenare l’insegnante. Se un tempo si incontrava per strada un accattone si era portati a bollare il sistema, che permetteva diseguaglianze e ingiustizie sociali; se oggi ci si imbatte in un extra-comunitario, che tende la mano per chiedere aiuto, si pensa che sia giunta l’ora di alzare un muro per evitare l’arrivo di questi poveracci.

Oggi non è ammesso avere dubbi, sono richieste certezze: un altro insopportabile vezzo lessicale è il rispondere sì o no con l’aggiunta di “assolutamente”, quasi a rimarcare che non si può e non si deve minimamente titubare di fronte alla realtà. Il discorso vale anche per la politica. Il grande Mino Martinazzoli, segretario del partito popolare, nato dalle ceneri della Democrazia Cristiana, durante una intervista televisiva, disse apertamente e ironicamente di invidiare chi spacciava certezze, mentre lui si sentiva così pieno di dubbi.

Alle recenti elezioni politiche ha vinto chi ha saputo sparare proposte nette e dirimenti: nel Sud Italia, impoverito dalla crisi, ha fatto breccia il “reddito di cittadinanza”, una risposta campata nell’aria di una impossibile copertura finanziaria, ma vincente rispetto al discorso di aiutare la ripresa economica in modo da consentire un reddito da lavoro a chi ora non ce l’ha; al Nord, preoccupato e insicuro per il fenomeno delinquenziale, sbrigativamente e razzisticamente associato a quello dell’immigrazione, ha fatto breccia il messaggio del “mandiamoli a casa: prima noi e poi loro”, rispetto al ragionato e complesso discorso della gestione internazionale ed interna del problema immigrati.

Il partito democratico, al di là dei possibili errori commessi dalla sua classe dirigente, è vittima di questo cambio culturale nella mentalità corrente: propone la gradualità riformista che si scontra con la immediatezza populista richiesta dalla gente. In Parlamento avremo due vasi di ferro (il centro-destra a egemonia leghista e il M5S) populisti con in mezzo il vaso di coccio riformista del PD. In base alla similitudine manzoniana è facile prevedere per il centro-sinistra una collocazione difficile al limite della sopravvivenza. E allora anziché ristudiare e riprogettare con pazienza una proposta che sappia coniugare la irrinunciabile dottrina riformista con l’urgenza dei problemi percepiti dalla gente, il PD è tirato per i capelli nello stucchevole e povero dubbio, tutt’altro che amletico, se dialogare o meno con gli avversari, soprattutto con i grillini, al fine di consentire un governo al Paese.

È già partito questo tormentone che presumibilmente caratterizzerà i prossimi mesi della vita politica. Cosa farà Tizio? Cosa farà Caio? Cosa farà il PD del dopo-Renzi? Ma ancor prima, Renzi se ne andrà veramente e chi gli potrà succedere? In questi giorni si è aperto il toto-governo, peraltro già ampiamente prefigurato in campagna elettorale. Cercherò di non lasciarmi trascinare in questa trappola e mi sforzerò di continuare, nonostante le sirene populiste, a ragionare di politica, a fare “certi discorsi”, lasciando perdere “ovviamente” gli “assolutamente sì” e gli “assolutamente no”.