I ripescati di ferro

I dati elettorali evidenziano una sfilza di candidati trombati e…ripescati: sono stati cioè bocciati dagli elettori a livello di sistema maggioritario nei collegi uninominali, ma, siccome erano inseriti in pole position anche nel sistema proporzionale, vale a dire nei collegi plurinominali su liste bloccate, si sono salvati in corner e andranno in Parlamento, alla faccia di chi pontificava sul garantire la possibilità di scelta agli elettori. Si tratta di una ventina di candidati, personaggi politici di primo piano soprattutto del Pd, ma anche di LeU, del centro-destra e persino del M5S. Sarebbe interessante scorrerne l’elenco, non è mia abitudine tuttavia sparare a casaccio, ma, come si vedrà, intendo solo fare un certo ragionamento. I partiti hanno offerto ad alcuni loro esponenti una sorta di scialuppa di salvataggio (non mi si racconti che le pluricandidature volevano catturare consensi): un meccanismo che, seppure in modo diverso, è sempre esistito ed è sempre stato praticato a copertura del rischio personale di bocciatura da parte dell’elettorato.

Non mi scandalizzo più di tanto di questi giochetti e di questa rete protettiva concessa dai partiti a loro dirigenti ritenuti meritevoli di elezione a prescindere dai voti raccolti dalla gente: un tempo le preferenze erano l’antidoto rispetto a questi meccanismi partitocratici, ma nel tempo si scoprì che la cura era peggiore della malattia. Le preferenze innescavano infatti gare truccate, accordi opachi, mercanteggiamenti vari e brogli elettorali: la loro eliminazione, tramite un referendum, diede la stura al discorso del cambiamento del sistema politico. Poi ci si è accorti che togliere la preferenza voleva dire dare troppo potere ai partiti che potevano scegliere l’ordine di precedenza delle candidature nel chiuso delle loro stanze. Tutti questi discorsi cominciano e finiscono nel gran busillis della legge elettorale e dei suoi meccanismi più o meno democratici. Negli ultimi anni ha costituito uno degli argomenti principali di discussione, legato alle riforme istituzionali, al rispetto della legittimità costituzionale, alle garanzie di rappresentanza, governabilità e stabilità.

Tra i bocciati a livello di uninominale c’è un mio caro amico, Giorgio Pagliari, candidato per il Pd nel collegio Parma 7, che comprendeva anche il territorio reggiano. Una sconfitta imprevista e, per certi versi, inspiegabile. Al di là del suo inevitabile coinvolgimento nella debacle del partito anche nei territori considerati un tempo vere e proprie roccaforti della sinistra, la ragione credo stia tutta nel fatto che il senatore Pagliari, giustamente, ha lavorato molto e si è fatto intervistare poco. I suoi numeri in Parlamento parlano chiaro: 95,4% di presenze, 21 disegni di legge presentati come primo firmatario, 138 interrogazioni, 464 emendamenti proposti sempre come primo firmatario. Pagliari ha fatto cioè in modo egregio il suo dovere, quello che gli richiedeva la Costituzione, vale a dire impegnarsi soprattutto nella funzione legislativa propria del Parlamento. Secondo l’ultimo rapporto OpenPolis è stato il parlamentare più produttivo della scorsa legislatura, tra Camera e Senato. Una pagella invidiabile, ma non gli è bastata. In questo paese di merda (scusate, ma quando ci vuole…) che valgono sono le chiacchiere, le stronzate sparate alla viva il parroco, la ossessiva cura della propria immagine, la risonanza mediatica, le balle, la scorrettezza verbale nei confronti di avversari e amici, le sgomitate, le leccate di piedi a tizio e caio e l’opportunismo.

Mi si dirà che sto spezzando una lancia a favore di un mio amico. A parte il fatto che lo faccio a elezioni (mal) celebrate, l’amicizia mi impone di dare a Pagliari quel che è di Pagliari. A lui sono mancate le precondizioni (negative) di cui sopra e la sua rigorosa e sdegnosa lontananza dai giochi della politica politicante, gli ha impedito paradossalmente la sacrosanta rielezione e financo il ripescaggio ai tempi supplementari. Il miglior parlamentare italiano bocciato dall’elettorato e trattato malissimo dal suo partito: per lui niente doppia candidatura e niente ripescaggio, la rete protettiva era bucata. Per Pagliari esistono dei precedenti, forse ancor più clamorosi: nel 2012 gli venne negata dal Pd la candidatura a sindaco di Parma, ritenuta da tutti una scelta imprescindibile, valida e vincente; e fu una catastrofe elettorale ed amministrativa per la nostra città. Allora segretario nazionale del Pd era Bersani (oggi un ripescato di LeU). A gestire le candidature politiche di quest’anno è stato Matteo Renzi. Ebbene, per Pagliari non è cambiato molto.  Un comune amico sacerdote di lui ha sempre detto: “è troppo bravo per essere vincente”.

Poi stiamo a chiederci perché i partiti hanno perso il contatto con i cittadini, perché la sinistra è in crisi, perché stravincono i grillini, perché ritorna a galla Berlusconi, perché gongola Salvini. Bisogna però anche avere il coraggio di rispondere che, oltre il sistema politico balordo, abbiamo un corpo elettorale che vota con la pancia (piena o vuota che sia) e, in molti casi, col paraocchi mediatico o social come dir si voglia.