C’era un mio simpatico e brillante conoscente, che alla moglie aveva affibbiato il soprannome di “Francia” a significare i rapporti coniugali piuttosto burrascosi e difficili. In effetti la storia parla di tensioni alquanto frequenti fra Italia e Francia. Ho tuttavia sempre avuto l’impressione che le difficoltà non siano state e non siano tanto dovute a divergenze di interessi e a differenti caratteristiche socio-economiche, ma ad uno spocchioso senso di superiorità, che i Francesi nutrono nei nostri confronti, considerandoci i parenti poveri.
Ricordo come mia sorella, nella sua solita schiettezza di giudizio, una volta si lasciò andare e parlò di “quegli stronzoni di Francesi”: non sbagliava di molto. Un conto è essere superiori su basi oggettive, un conto è ritenersi aprioristicamente migliori. Sono convinto che la Francia, come del resto l’Italia, abbia parecchi scheletri nell’armadio da nascondere e invece di cercare l’alleanza con i paesi più simili, con cui instaurare collaborazioni e solidarietà, ha preferito la fuga in avanti verso la Germania: della serie “è meglio leccare i piedi ai tedeschi” che condividere “la puzza dei piedi” con gli italiani.
Ecco perché ho seguito con un certo interesse gli incontri bilaterali di vertice tra Macron e Gentiloni-Mattarella, il presidente francese è infatti un non entusiasmante mix istituzionale tra presidente della repubblica e capo del governo. Al di là dei soliti convenevoli e degli scontati complimenti reciproci non ho visto in Macron una credibile inversione di tendenza rispetto al succitato andazzo. Addirittura, se non ho capito male, ci ha, seppure elegantemente, dipinti come la ruota di scorta nella strategia europea, come la riserva che gioca nella misura in cui i titolari restano in panchina.
Sarò prevenuto, ma ho avuto questa brutta impressione: mi augurerei di essere smentito dalla sostanza degli accordi, definiti pomposamente e ottimisticamente il “Trattato del Quirinale”. Il tempo è galantuomo e ci dirà se si è avuta una svolta storica, anche se ho notato che Gentiloni non ha voluto spendere una definizione così impegnativa.
Emmanuel Macron in questa prima fase della sua presidenza ha tradito molte entusiastiche ed esagerate aspettative: è malato di protagonismo (non è l’unico leader ad avere questa malattia) e non sembra avere una visione internazionale aperta e solidaristica.
Tutti i capi di stato in questo periodo si attestano innanzitutto sulla difesa degli interessi nazionali, poi vengono le alleanze e le collaborazioni: l’Europa vista così non mi piace e non mi convince. Di questo passo la Federazione la vedremo col binocolo.
In buona (meglio sarebbe dire in cattiva) sostanza ci sono tre modi eleganti di essere antieuropeisti e sono queste buone maniere, che mi spaventano assai più degli sbracati attacchi populisti. Abbiamo l’autonomismo inglese, sfuggito di mano agli inglesi stessi e quindi portato all’eccesso della Brexit. Abbiamo il protagonismo assoluto della Germania, la prima della classe che scrive alla lavagna i buoni e i cattivi e vuole dettare tempi e modi al processo di integrazione europea: della serie “o così o pomì”. Abbiamo la strategia del pesce in barile della Francia, che si accontenta delle briciole protagonistiche e lega l’asino dove vuole il padrone.
E l’Italia? Meno male che c’è Draghi, altrimenti saremmo trattati a pesci in faccia: abbiamo i nostri limiti e difetti, ma gli altri non ne sono affatto esenti. Resto sempre affezionato al grande presidente Pertini, che ripeteva: non siamo primi ma nemmeno secondi a nessuno. Cerchiamo di ricordarcelo e di scombinare coraggiosamente questi fili strategici europei, non tirandoci indietro ma accelerando, andando a vedere in mano agli altri, senza paura di aprire i nostri armadi. Nessuno in fin dei conti può darci lezioni di europeismo. Qui si fa l’Europa o si muore!