Renato, un simpatico amico di mio padre, era un amante della compagnia e ad essa sacrificava i propri gusti: non gli interessava il calcio, ma a volte andava con gli amici allo stadio. Tutto pur di stare in compagnia, senza rinunciare alla propria personalità.
Dagli spalti lanciava le sue provocazioni. Durante la partita, magari in una fase piuttosto tranquilla a centro-campo, si metteva a gridare: «Opso! Arbitro, opso!». Era la sua versione dell’inglese off-side, fuori-gioco in italiano. A chi gli faceva osservare che il problema in quel momento non esisteva, rispondeva: «Cò vót ch’a sapia mi, andì sémpor adrè con cl’opso lì…». Faceva il finto tonto, in realtà sapeva benissimo di cosa stava parlando, ma gli piaceva prendere in giro la gente nei suoi eccessi, anche quelli del tifo calcistico. Tra l’altro, dava sempre ragione all’arbitro. Quando tutti inveivano contro il direttore di gara, lui lo difendeva a spada tratta: «Al gh’à ragión, al gh’à ragión». Un provocatore nato.
Non ho idea di cosa direbbe Renato della Var, forse si chiederebbe: «Mo co’ éla c’la bagàja lì?». Fatto sta che… fatta la legge trovato l’inganno. Molte decisioni arbitrali, tramite la moviola in campo, sono state riviste e portate all’oggettività della situazione così come risultante dal video. Ero maliziosamente convinto che sarebbe cambiato qualcosa negli equilibri fra le squadre: le cosiddette grandi non avrebbero più potuto godere degli smaccati favori arbitrali e quindi la classifica ne avrebbe risentito. Sarebbe interessante rivisitare le partite di un campionato trascorso utilizzando lo strumento tecnologico, per vedere l’effetto che ne uscirebbe: forse lo scudetto potrebbe cambiare casacca.
Purtroppo le novità si stanno dimostrando vere fino ad un certo punto. Infatti laddove l’oggettività dell’immagine è indiscutibile (fuori gioco, gol fantasma, etc.) ci si può sentire relativamente tranquilli, ma rimane scoperta l’area di giudizio riconducibile alla volontarietà del fallo e soprattutto alla decisione di ricorrere o meno al supporto del Var (discorsi per i quali rimane una notevole discrezionalità arbitrale). Ecco quindi rispuntare il rischio (oserei dire la certezza) della sudditanza psicologica degli arbitri nei confronti delle squadre più blasonate: con il Var a disposizione i favoritismi diventano ancora più scoperti ed inaccettabili. Con il progredire del campionato sembra quasi che i direttori di gara si stiano ribellando al Var sfruttando i relativi loro margini di autonomia di giudizio a vantaggio dei club più influenti. Non se ne esce, non c’è Var che tenga!
Tutto sommato aveva ragione mio padre. Lui dell’arbitro non parlava mai, lo ignorava, lo riteneva un elemento esterno da prendere per quello che è (come la pioggia per i contadini, a volte come le grandine). Capiva perfettamente quando l’arbitro sbagliava, ma riteneva inutile, oltre che sconveniente, urlare contro di lui: è come abbaiare alla luna. C’era in questo atteggiamento un qualcosa di aristocratico: non mi abbasso a questionare con un soggetto che magari approfitta del potere che gli è stato concesso.
Era solito dire: “S’al spéta ch’a sbraja mi, al spéta un pés, l’arbitro. Al pól fisciär anca dez rigór…”. Ed aggiungeva, dicendo una cosa vera fino ad un certo punto, ma che può essere una sana regola calcistica: “Butta dentor dil bali int la rej e po’ l’arbitro al gh’ à poch da móvor”. Di una cosa si spazientiva molto: non sopportava che l’arbitro ignorasse o invertisse gli interventi dei suoi collaboratori (segnalinee): “S’a fìss mi al guärdalinei andrìss da l’arbitro, a gh metrìss la bandiera sòtta al bras e andrìss fóra. Ch’al vaga avanti lu…”.
Oggi forse non accetterebbe che l’arbitro snobbi la Var, come sta succedendo in parecchi casi. Ma poi chiuderebbe le polemiche, così come faceva al termine di certe partite calde.
Il rifiuto della violenza e della polemica pesante era per lui assoluto e intransigente, non consentiva che mi attardassi a curiosare dopo la fine del match, tagliava corto e mi spingeva fuori senza possibilità di replica: “Andèmma a ca’ parchè nuätor, stasira, a ghèmma da magnär”. Una frase brutale, se volete, ma lapidaria, che rendeva l’idea sull’assurdità di un diverso comportamento.