Il peggior sintomo del malessere del mondo in cui viviamo è la triste fine dei dissidenti: incarcerati, torturati, lasciati morire. È successo a Liu Xiaobo in Cina, arrestato nel 2008, per 7 anni in prigione, Nobel per la pace nel 2010 senza poter ritirare il premio per il divieto delle autorità, accusato dal regime cinese di “incitamento al sovvertimento dello Stato” per la sua attenzione al sacrificio dei giovani di piazza Tienanmen; muore di cancro al fegato in un ospedale-prigione dopo non aver avuto la possibilità di curarsi adeguatamente. Il filo di separazione fra sostanziale tortura e libertà formale è sempre furbescamente sottile: i regimi sono esperti nel costruire questi equivoci. Non è un caso isolato e nemmeno una questione solamente cinese: sta succedendo in molte altre parti del mondo, magari a nostra insaputa o spesso nella nostra indifferenza.
«Il potere si combatte uscendo dalla logica del potere. È una battaglia innanzitutto interiore (…) In tutto il mondo i regimi negano la libertà degli intellettuali, li mettono in prigione, impediscono la pubblicazione dei loro libri. Illudersi di poter cambiare questo, sperare che un individuo possa cambiare questo stato di cose, è assurdo (…) Pensare che dei semplici individui o degli intellettuali possano provocare il cambiamento politico è un’idea falsa e sbagliata», così si esprime un altro premio Nobel cinese, lo scrittore Gao Xingjiang, che vive a Parigi dalla fine degli anni ’80. Le sue sembrano pesanti critiche al mondo occidentale, cosiddetto democratico, che si gira dall’altra parte in nome della realpolitik, lasciando ai dissidenti la battaglia per i diritti umani e contro le costrizioni dei regimi.
Anche l’opinione pubblica è distratta, alza rassegnatamente le spalle come se tutto ciò fosse inevitabile. Il metro di giudizio sulla civiltà democratica di una società non dovrebbe essere tanto il Pil (in questo senso la Cina primeggia e scombussola il mondo intero), che ci angustia e ci perseguita, ma il trattamento riservato ai dissidenti, a coloro che si dissociano dai regimi e osano alzare, pacificamente ma decisamente, la voce contro le ingiustizie e le contraddizioni.
Ho sempre avuto una spiccata simpatia per coloro che non rinunciano alle proprie idee, che si ribellano alle costrizioni, che ragionano con la loro testa. Me lo ha insegnato soprattutto mio padre. Non c’è giorno della mia vita in cui non emerga, con più o meno forte risonanza, un insegnamento lasciatomi in preziosa eredità da mio padre. Chi mi conosce e mi frequenta me ne può dare atto perché spesso il ricordo rimbalza sugli altri, direttamente o indirettamente, straripa a livello d’ambiente, ricade sui miei interlocutori che, loro malgrado, si trovano a fare i conti con la filosofia spicciola di un uomo d’altri tempi. Quasi sempre il messaggio mantiene intatta la sua attualità, la sua abbondante dose di ironica, per non dire graffiante, provocazione, in una gustosa miscela di anticonformismo, radicalismo, anarchia, trasgressione etc: il tutto insaporito da una spruzzata di autentica parmigianità, molto soft, poco ostentata ma sottilmente e gradevolmente percettibile. Mio padre, prima e più che in senso politico, era un antifascista in senso culturale ed etico: non accettava imposizioni, non sopportava il sopruso, non vendeva il cervello all’ammasso, era uno scettico di natura, aveva forse inconsapevolmente qualche pulsione anarchica, detestava però la violenza.
Fin qui gli insegnamenti paterni che ho cercato di metabolizzare nelle mie scelte di vita a tutti i livelli ed in tutti i campi. Una volta, registrando un duro ostracismo nei miei confronti da parte di un ambiente con cui avevo rapporti di lavoro, chiesi ad un caro amico, che conosceva molto bene quell’ambiente a me ostile, il perché di tanta implacabile e irreversibile contrarietà. Mi rispose: «È molto semplice, la ragione sta tutta nella tua pervicacia, al limite della testardaggine, nel non piegarti alla volontà di chi comanda, nel non rinunciare minimamente alle tue idee, costi quel che costi. Tutto ciò ti rende antipatico, anche perché, forse, questa tua fermezza, viene interpretata come presunzione o superbia…». Presi atto, ma feci parecchie riflessioni.
Sbaglierò, mi sono chiesto più volte, sarà effettivamente superbia? Andando su con gli anni, questo atteggiamento si è ulteriormente rafforzato, è diventato una sorta di irrinunciabile imperativo morale. Non è un fatto caratteriale, perché, se così fosse, il tempo avrebbe smussato gli angoli. È un dato esistenziale probabilmente connaturale, rafforzato dall’educazione ricevuta.
A ben pensarci viaggio su due binari paralleli: uno, come detto, me lo ha fornito e testimoniato mio padre, quello della orgogliosa convinzione delle proprie idee; l’altro me lo ha dolcemente ficcato in testa mia madre, quello della riconoscenza verso il bene ricevuto dagli altri. Nel primo caso posso scantonare nella presunzione; nel secondo posso debordare nella debolezza e nella scarsa capacità di affrontare di petto le situazioni. Sembrano quasi due insegnamenti contraddittori, invece si integrano e si completano a vicenda.
Ecco perché quando sento o leggo di un dissidente, che resiste fino alla morte, mi commuovo e mi sento coinvolto. Ecco perché davanti ai dimostranti contro i vertici dei potenti, vado in profonda crisi: mi sento dalla loro parte, poi però ci sono le violenze e allora…rovinato tutto. Il dissidente non violento è il mio ideale di uomo o di donna. Proprio per questo di fronte a certi personaggi, come Liu Xiaobo, mi sento una “merda”.