“La Francia non ha sempre fatto la sua parte sui rifugiati. Ora acceleriamo: efficacia e umanità (…) La Francia deve poter accogliere i rifugiati e i richiedenti asilo, faremo la nostra parte (…) Non possiamo accogliere uomini e donne che per motivi economici cercano di venire nei nostri Paesi: sono due realtà profondamente diverse e non ricadono nello stesso diritto e negli stessi doveri sul piano morale, non cederò allo spirito di confusione imperante” : così il Presidente francese Macron sull’emergenza immigrazione.
In lui c’è chi vede un novello De Gaulle, un moderno Mitterand, un aspirante Napoleone. Mi limito a prendere atto di un personaggio nuovo con tutto il suo carico di speranze e di illusioni (e immediate delusioni), un politico non politico (?), un leader che fa sognare i Francesi (i sogni francesi sono pericolosi), un europeista che fa riflettere gli Europei (per la Ue c’è bisogno di una scossa molto elettrica), un pragmatico che sa parlare al cuore della gente (una sfida piuttosto ardua), uno statista tutto da scoprire e da verificare.
La prima spina? Tra il dire e il fare sull’immigrazione ci sta di mezzo questo assurdo paravento della distinzione tra morto di guerra e morto di fame. Della serie: con i disperati me la vedo anch’io, con gli affamati vedetevela voi. Bene ha fatto il premier italiano Gentiloni a dichiarare: «Non possiamo dirci soddisfatti perché non accetteremo mai l’idea che qualcosa sia internazionale e qualcosa italiano».
Azzardo una similitudine evangelica: sarebbe come se il Buon Samaritano, prima di soccorrere la vittima di una imboscata, avesse chiesto conto del perché e del percome e, visto che gli erano stati rubati i soldi e che quindi era un immigrato economico, lo avesse consegnato semplicemente all’albergo all’angolo della strada perché ne facesse quel che credeva. Sarebbe stato non il buon samaritano, ma un samaritano alla Macron.
I porti francesi restano chiusi, l’accoglienza vale fino a mezzogiorno, la condivisione fa un passo avanti e due indietro. Mio zio, residente in quel di Genova, quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo, ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva».