Mio padre era un pacifista, non tanto per motivazioni di carattere ideologico, ma per un suo innato buon senso che lo portava ad aborrire la guerra. Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?».
Davanti agli interminabili ed insanabili contrasti politici si scandalizzava, non tanto perché ignorasse ingenuamente la difficoltà di trovare i punti in comune a favore della collettività, ma in quanto riteneva provocatoriamente che, se si parlava di costruire il progresso economico e sociale, saltavano fuori tutte le possibili e immaginabili differenze di opinione, mentre invece, quando si trattava di mettersi d’accordo per preparare o scatenare una guerra, per armarsi fino ai denti, bastavano pochi minuti e si trovavano cospicue risorse e unanimi volontà politiche.
Me ne sono ricordato in questi giorni apprendendo come, a livello Ue, la rinnovata cooperazione post-brexit e la collaborazione franco-tedesca, abbianp preso il via proprio da un patto sulla difesa comune: battaglioni misti per la reazione rapida e il dispiegamento di truppe in teatri di crisi esterni all’Unione, nonché un Fondo per la difesa europea con le risorse per la ricerca e lo sviluppo in campo militare. Non so nemmeno cosa voglia dire e me ne vanto: ho copiato di sana pianta da chi se ne intende.
Capisco benissimo l’importanza strategica di un simile accordo, il suo significato unificante all’interno (linea comune di difesa, maggiore organizzazione ed efficienza, persino forse il risparmio o, quanto meno, il miglio utilizzo delle risorse) e stabilizzante verso l’esterno (una risposta all’isolazionismo atlantico di Donald Trump). Tuttavia desidererei che ci fosse almeno altrettanta convinzione sulle altre problematiche a carattere sociale (vedi immigrazione) ed economico (vedi sostegno ai Paesi più deboli della catena e ai paesi sotto-sviluppati dell’Africa). Qui invece casca l’asino e rispuntano immediatamente gli egoismi nazionali, i muri, le perplessità, gli scetticismi.
È innegabile che l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, ancora tutta da stabilire nei suoi modi e tempi e nelle sue conseguenze bilaterali, stia facendo da detonatore per un rinnovato impegno unificante dei rimanenti Paesi europei. Tutto il mal non vien per nuocere? Può darsi, anche se perdere una carrozza non è sicuramente un buon viatico per il prosieguo del viaggio in treno. Certo quel tanto osannato coraggio anti-europeo sta lacerando la società britannica: e siamo solo agli inizi. Speriamo serva di lezione a tutti.
Che però la ripartenza e il contropiede europeo partano dagli eserciti e dalle armi in comune, mi sembra curioso. Mio padre mi risponderebbe: «At l’ho dìtt: i sòld par fär dil guéri is caton sémpor, par jutär i pòvor diävol in ghen mäi…».
Ma no papà, forse è solo il desiderio di stringere le fila, di stare uniti e di prevenire gli attacchi esterni. Speriamo sia così, anche se la tentazione di ripiegare sull’insegnamento paterno è molto forte.