Smaltita la stizza elettorale, fatte le opportune riflessioni sul significato e la portata del voto in sé, bisogna pur vedere cosa è successo nelle urne degli oltre mille comuni in cui si sono rinnovate le amministrazioni. A mio giudizio non è successo proprio niente di nuovo, anche se tutti si sono precipitati a cogliere le più svariate novità.
La debacle grillina era annunciata: già nella tornata amministrativa dello scorso anno il M5S aveva perso moltissimi consensi, anche se il dato era stato camuffato con l’inopinato successo a Roma e Torino. Virginia Raggi non poteva che vincere visto il casino amministrativo combinato in parte dalle amministrazioni di sinistra, ma soprattutto da quella del sindaco Alemanno, un’autentica sciagura facilitata persino dai rigurgiti destrorsi della Chiesa cattolica in vena di riconquistare Roma, che non ha mai cessato di essere papalina e fascista. Chiara Appendino aveva vinto non per suoi meriti e ancor meno per quelli del suo movimento, ma per i demeriti burocratici e ingessanti di una sinistra che scambia pragmatismo con burocratismo, solidarietà con ideologia e che alla fine si dimostra capace solo di innervosire le menti raffreddando i cuori. Il trend dei grillini in caduta libera è continuato, avvalorato oltretutto dai flop romani della Raggi e dal gelido continuismo dell’Appendino.
È normale che un movimento, antipolitico, protestatario, liquido, contestatore ante litteram, non riesca ad esprimere uno straccio di classe dirigente periferica credibile. Non è certo colpa del pur manovriero e politicante Luigi di Maio, non è questione di scontro fra ortodossi e innovatori, fra vecchia guardia idealista e nuova leva pragmatista, tra fedeli osservanti e polemici contestatori: il M5S è Grillo, tutto ruota intorno a lui, che vince e perde di conseguenza. Fin tanto che si può sbraitare in Parlamento, il consenso può anche arrivare, le carenze e i contrasti vengono coperti dalla (finta) ribellione al sistema, ma quando i problemi si fanno concreti e precisi lo sbraitare irrita, non porta voti e scopre tutta l’inadeguatezza delle proposte e di chi le esprime.
Il secondo dato scontato emergente è quello della presa elettorale del centro-sinistra e del centro-destra, se si presentano facendo il loro mestiere con un minimo di reciproca compattezza: non ci vogliono schiere di pennivendoli o eserciti di opinionisti per scoprire l’acqua calda della politica. Gira e rigira, il vero punto di differenziazione e di competizione sta nel come vengono coniugati i due elementi fondanti della nostra democrazia: libertà e uguaglianza. Se vogliamo non chiamiamole più destra e sinistra, liberalismo e socialismo, conservatorismo e riformismo. Senza ricadere nell’ideologismo datato (a sinistra può chiamarsi operaismo di ritorno; a destra nazionalismo di rimbalzo), scegliendo l’obbligato solco del pragmatismo e della soluzione flessibile ed ottimista (vedi la lucida analisi di Daniel Cohn-Bendit in ordine al nascente macronismo francese), si dovrebbero confrontare due visioni diverse: l’elettore ne è alla ricerca e appena le intravede si schiera volentieri. La conseguenza è la perdita di presa del populismo, inteso proprio come risposta solo virtuale ai problemi essenziali.
In questo senso suonano patetiche le rivendicazioni oltranzistiche della Lega e di Mdp: a detta dei primi si vince aprendo il bar della destra, a giudizio dei secondi si vince riaprendo le cellule della sinistra. Gli elettori cercano altre cose, ma si vogliono loro imporre schemi vecchi. Se proprio vogliamo andare a discutere di politica al bar o in cellula, allora tanto vale seguire Beppe Grillo che, in certi metodi e atteggiamenti assomiglia molto all’uomo qualunque e/o al comunista trinariciuto: la soddisfazione di mandare tutti affanculo non è mai più pagata.