La cessione del Milan ai Cinesi segna la fine di un’epoca negli assetti societari del calcio italiano e non solo italiano. Con Berlusconi il mondo pallonaro era stato adottato dall’alta imprenditoria (?) Fininvest, che ne aveva fatto un elemento strategico della galassia economico-finanziaria ruotante attorno al cavaliere. Era un astro, un pianeta, un satellite? Di tutto un po’. Una stella luccicante attorno a cui ruotavano gli occhi bovini dei tifosi e quindi un formidabile collettore di consenso. Un pianeta ruotante attorno all’astro berlusconiano, inserito perfettamente nel coacervo di interessi dalla pubblicità alla politica, dai media alla finanza, dal mattone al pallone; nello stesso tempo ruotante su se stesso alla megalomane ricerca di un mecenatismo di ultima ed assurda generazione. Un satellite funzionante come dependance, come cortile di lusso in cui far giocare figli, amici e cortigiani: la ciliegiona del calcio parlato, talmente importante e invitante da mettere in second’ordine la torta del calcio giocato .
L’intreccio tra calcio e affari non è stata un’invenzione berlusconiana, viene più da lontano, ma il cavaliere lo ha istituzionalizzato, aggiungendovi da una parte la raccolta del consenso politico e dall’altra uno stretto, scoperto e spudorato legame aziendalistico con le realtà imprenditoriali del gruppo.
Anche se oggi i commentatori vanno leccaculisticamente a gara nel trovare i meriti e i successi di questo lungo sodalizio, enumerando i tanti trofei conquistati, bisogna riconoscere criticamente che si è trattato di una tappa fondamentale e decisiva nel cammino snaturante, deviante e squalificante dello sport in genere e del calcio in particolare. Berlusconi ha tolto al calcio l’ultima parvenza sportiva che gli rimaneva per trasferirlo definitivamente e completamente nel mondo degli affari con tutte le conseguenze del caso.
Forse però è finito anche questo ciclo integrato, che potremmo definire “imprenditoriale”: la crisi economica non consente distrazioni ed eccoci arrivati alla fase puramente “finanziaria e speculativa”, con il calcio ridotto a bene rifugio in cui investire spregiudicatamente grossi capitali provenienti dall’estero, dal capitalismo emergente (Cina) e da quello deviato (Russia), una sorta di mega-forno in cui riciclare i puzzolenti rifiuti finanziari del capitalismo più equivoco se non sporco.
Non riesco a intravedere quale sarà l’impatto sul livello qualitativo e spettacolare dello sport, perché noto una sempre più netta e insanabile frattura tra la proprietà e l’utenza. Forse sta iniziando il calcio estraneo, il calcio “estremo”, dove non c’è nemmeno un posticino in curva per gli appassionati, forse nemmeno più davanti al video; il tifo prezzolato diventerà la regola, gli stadi diventeranno contenitori polifunzionali, lo sport sarà solo un pretesto per ben altri discorsi. Può darsi che si restringa drasticamente il numero degli attori protagonisti (costano troppo, allora pochi ma buoni) e che molta gente che vive ai margini del circo debba cambiare mestiere e questo non sarebbe poi un gran male.
Un mio zio da disincantato osservatore del fenomeno calcio diceva con grande e simpatica ironia: «Vintidu òmmi ca còrra adrè a ‘n balón… mi andrò a veddor il partìdi quand ag sarà vintidu balón ca còrra adrè a ‘n omm…». Ci stiamo per caso avvicinando, in un certo senso, alla fantasiosa e provocatoria ipotesi di mio zio? Con l’aggiunta di un elemento fondamentale: i sòld chi fan còrror tùtti.