La vicenda della nomina del presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato assume per me un rilievo tutto particolare, considerata la grande amicizia e prima ancora la grande stima che nutro nei confronti del senatore Giorgio Pagliari, candidato dal PD a ricoprire questo incarico e purtroppo vittima di una vera e propria imboscata parlamentare.
In Parlamento, come nella società, la persona non vale niente, non conta nulla l’interesse generale, prevalgono su tutto gli interessi di parte ed in base a quelli ci si orienta e ci si muove. La candidatura era di alto spessore e tale da garantire correttezza in un dibattito politico in cui l’importante è gridare offese a vanvera, in una situazione politica delicata che viene affrontata col garbo dell’elefante nel negozio di cristalleria.
Questa Commissione dovrà occuparsi della riforma elettorale: sono sicuro che Giorgio Pagliari l’avrebbe presieduta con competenza, professionalità e rigore, senza prevaricazioni, senza forzature, nell’assoluto rispetto dei colleghi appartenenti a tutte le forze politiche. Non sarebbe andato a fare il portavoce di Matteo Renzi pur essendo espressione del Partito Democratico, non avrebbe forzato la mano su un sistema elettorale pur aderendo alle proposte del suo partito, avrebbe tenuto certamente conto di tutte le sensibilità ed opzioni di maggioranza e di opposizione, operandone, nei limiti del possibile e dei suoi poteri, una leale sintesi, quale utile base per il lavoro parlamentare d’aula sulla materia.
Questo voto, a dir poco anomalo, mette in obiettiva difficoltà, non tanto il Governo, ma il Parlamento che, in questo modo, ha lanciato il deleterio segnale di preferire subdole trasversalità a leali confronti, opachi accordi a franche discussioni. Continuino così e la distanza coi cittadini diventerà sempre più incolmabile.
Innanzitutto stupisce (?) che in questa logica cadano, fra gli altri, anche coloro che si ergono a portatori di una diversità nel vivere le Istituzioni. Mi riferisco al M5S. Perché non hanno avuto il coraggio di esternare il loro intendimento ed hanno preferito rifugiarsi nel voto segreto, operando un attacco politico che nulla ha a che vedere con l’Istituzione di cui si doveva eleggere il presidente? Se proprio volevano distinguersi, come hanno fatto diverse volte, avevano altre possibilità: il non votare, il votare scheda bianca, il votare un loro candidato. Invece hanno fatto convergere tatticamente i loro voti su un outsider di maggioranza, solo ed esclusivamente per creare confusione o, ancor peggio, per sostenere chi promette loro un piatto di lenticchie sulla legge elettorale, per la quale fino ad ora non hanno voluto saperne di dialogare seriamente con nessuno.
Vengo brevemente al comportamento parlamentare del nuovo Movimento dei Democratici Progressisti, i fuorusciti dal PD, che avevano lasciato intendere un leale appoggio al governo Gentiloni: su 934 voti espressi da quando è nato questo nuovo raggruppamento alla Camera, in 329 casi i Demoprogressisti hanno votato contro il governo (dati forniti dal capogruppo PD Rosato e non smentiti). Sorgono seri dubbi sul loro comportamento in generale e anche su quello tenuto nella vicenda in questione.
Ed eccomi ad Area popolare, il gruppo di Alfano: da un po’ di tempo non nasconde una certa insofferenza verso le linee dell’alleato PD e del governo di cui fa parte. Lascia emergere o subisce una candidatura alternativa a quella di maggioranza e su quella viene ottenuto il voto delle minoranze; Alfano, piccolo leader (?) di un piccolo ondeggiante partito, messo alle strette, farfuglia qualche scusa, prova a rivoltare la frittata che gli brucia in mano, punta sul ravvedimento operoso, ma Salvatore Torrisi, il presidente eletto, sembra non volerne sapere di farsi da parte a costo di espulsione (tanto, cambiare camicia, per i neo-centristi, è un divertimento).
Seguo la politica da quando avevo quattordici anni, non sono un ingenuo e nemmeno un “bacchettone”, ne ho viste e sentite di tutti i colori. Proprio per questo non mi si vengano a raccontare balle che stanno in poco posto. Non c’è bisogno di fare della dietrologia per capire cosa è successo: una “porcata” in vista della legge elettorale, laddove porcata chiama porcata. Non è un caso che il leghista Roberto Calderoli – lui di porcate se ne intende – lo abbia chiaramente spiegato ed abbia esultato, intravedendo la possibilità di votare una legge, che non risponda ai principi di rappresentatività, governabilità e stabilità tanto sbandierati, ma allo scopo ben preciso di votare in fretta dando un colpo a Renzi. Continua il disegno referendario: tutti uniti contro Renzi.
Uniti sì, ma contro la DC, si urlava nelle piazze degli anni settanta. Uniti sì, contro Renzi, si sussurra in Parlamento. Ne ha fatto le spese il senatore Giorgio Pagliari, troppo bravo per essere votato. Lo ammette, direttamente e indirettamente, perfino il sedicente playmaker dell’imboscata, Roberto Calderoli. D’altra parte non era già successo a Giorgio Pagliari per la candidatura a sindaco di Parma? Guarda caso allora, nel 2012, artefici di quella inqualificabile manovra furono Bersani e c. Sappiamo i risultati che ottennero.
La storia si ripete, non proprio con identiche manifestazioni e identici protagonisti, ma la morale della favola è sempre la stessa. Allora fu consegnata Parma a un grillino, che oggi abiura (con qualche ragione) alla sua fede. Di questi tempi si finirà col dare il governo in mano a un grillino per portarci alla deriva in Italia, in Europa e nel mondo. Grazie di tutto!