Una giovane neo-laureata in economia si è suicidata. Non per la disperazione di non trovare lavoro, non per una grossa delusione sentimentale, non sotto l’effetto di stupefacenti. Sembra – il condizionale è oltremodo d’obbligo trattandosi di scandagliare il profondo dell’animo di una persona, laddove si può concepire una simile tragica scelta di non vita – per il vuoto sociale creatosi intorno a lei in conseguenza del fatto di avere candidamente ammesso di essere la nipote e la figlia di noti appartenenti alla ‘ndrangheta calabrese.
Il procuratore capo della Dda ha dichiarato: «È un episodio gravissimo che deve toccare la coscienza di tutti. Siamo tutti responsabili di questa tragedia. Abbiamo perso una ragazza che si è fatta una strada nella vita scolastica per la propria onestà, perché non abbiamo avuto la sensibilità di comprendere che vi sono mutamenti a cui tutti devono concorrere. Se noi perdiamo queste occasione per recuperare la libertà, l’onestà, l’etica, non c’è speranza per il futuro».
Stando alle dichiarazioni degli insegnanti, dei suoi colleghi ed al suo comportamento in ambito universitario, la situazione famigliare non avrebbe pesato più di tanto sui rapporti sociali e allora si tratterebbe solo di un estremo disagio psicologico a livello etico, una sorta di rifiuto della propria esistenza così come poteva emergere dai suoi legami parentali: in parole povere si sarebbe suicidata per vergogna.
Un suicidio – lo dico anche per triste esperienza – lascia in chi rimane una insondabile eco angosciosa, una sorta di rimorso per non averne capito per tempo le ragioni e per non aver avuto la sensibilità e il coraggio di affrontarle assieme alla persona schiacciata sotto il peso della disperazione. Il dramma è questo, non quello di disquisire sulla moralità della scelta e sull’astratto principio del rispetto per la vita.
Quando una giovane di 24 anni prende una simile decisione, qualunque sia la causa che l’ha spinta, pone inquietanti interrogativi a tutti. Vorrei però riflettere un attimo sull’ipotesi socialmente più delicata, vale a dire quella che sembra risalire agli imbarazzanti legami famigliari con la mafia.
Se questa persona è rimasta schiacciata sotto il peso di questo marchio, magari dopo averne verificato l’incancellabilità, ci chiede di non fare mai giustizia sommaria o semplicistiche generalizzazioni: ogni persona vale per quello che è e non per la sua genealogia e va aiutata a liberarsi di certe brutte eredità che la possono condizionare.
Mi sforzo di capire il dramma interiore di un figlio o di una figlia di un mafioso, che non aderisce alla scelta criminale del padre, anzi la condanna apertamente, ma nello stesso tempo non può rinnegare il legame sentimentale col proprio padre: più che all’isolamento sociale penso a questo devastante conflitto interiore quale possibile causa del suicidio della giovane calabrese. Certo, avrebbe avuto bisogno di essere capita ed aiutata e invece probabilmente si è vista circondata dal sospetto e dalla freddezza, se non addirittura dalla tacita condanna.
La seconda riflessione mi porta ad annoverare tra le vittime della criminalità organizzata anche i famigliari coinvolti loro malgrado in queste storie: si può essere vittima della mafia anche in questo senso. Dobbiamo abituarci ad inserirli nel lungo elenco e tra i primi auspicabili protagonisti del riscatto culturale e sociale dal fenomeno mafioso.
Un ultima parola di elogio per il magistrato che sta seguendo con tanta attenzione e sensibilità l’inchiesta: sta facendo onore alla categoria, gliene do atto molto volentieri, nonostante i dubbi e le perplessità su certi atteggiamenti della magistratura.