La scrittrice Jennifer Niven, impegnata nella letteratura per i giovani, in una intervista rilasciata a la Repubblica a commento dell’uscita del suo ultimo libro “L’universo nei tuoi occhi”, dice: «Il bullismo è uno dei problemi più gravi delle nostre società, che in un modo o nell’altro quasi ogni ragazzo si trova ad affrontare. Tutti noi conosciamo teenager bulli o, più spesso, bullizzati: nella vita reale, ma anche in quella virtuale, visto il dilagare del fenomeno online. Credo che anche le opere di fantasia, come le mie, servano a sensibilizzare, a tenere i riflettori accesi su questi ragazzi, sulle loro famiglie. L’importante è che se ne parli, che il dibattito resti vivo. L’attenzione, in situazioni come queste, è tutto».
Il torrenziale giornalista Francesco Merlo, sempre su la Repubblica, scrive a commento dei ricorrenti fenomeni di bullismo e di violenza giovanile: «Abbiamo scoperto, a Vigevano, che insegnanti, bidelli, genitori e vicini di casa, insomma gli adulti, non si erano accorti che dieci dei loro figli minorenni, organizzati in banda, assaltavano treni e aggredivano gli altri ragazzi per strada. Erano arrivati a violentare e a ridurre in schiavitù un loro compagno di 15 anni portato al guinzaglio, come in un film di Tarantino. Eppure nessuno ha segnalato nulla, né un carattere che si guastava, né un dettaglio di violenza a scuola, né una stranezza in casa. Come accade con quei suoni che hanno una frequenza che l’udito non percepisce, così un’intera comunità, in anestesia morale, non vedeva cosa le passava sotto il naso: per ignavia, per paura di compromettersi, per vigliaccheria perbenista».
Mia sorella, acuta ed appassionata osservatrice dei problemi sociali, nonché politicamente impegnata a cercare, umilmente ma “testardamente”, di affrontarli, di fronte ai comportamenti strani, drammatici al limite della tragedia, degli adolescenti era solita porsi un inquietante e provocatorio interrogativo: «Dove sono i genitori di questi ragazzi? Possibile che non si accorgano mai del vulcano che ribolle sotto la imperturbabile crosta della loro vita famigliare?».
Ebbene, in questo bailamme di trasgressione e violenza, riconducibile direttamente o indirettamente ad una profonda crisi valoriale, in questo desolante panorama che mette tristezza, un nutrito gruppo di genitori e maestri, con tanto di comitato Scuola e Costituzione, faceva ricorso al Tar al fine di proibire le benedizioni pasquali a scuola in nome del principio della laicità della scuola pubblica. Il Tribunale amministrativo accoglieva l’istanza in quanto la scuola “non poteva essere coinvolta nelle celebrazioni di riti religiosi, attinenti alla sfera individuale”. A distanza di due anni il Consiglio di Stato cambia giurisprudenza e sentenzia che “non può attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, se fuori dell’orario scolastico e facoltative, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività ‘parascolastiche’ non aventi alcun nesso con la religione, di natura sportiva o culturale”. Se ho ben capito il giudice sostiene, con molto buon senso, che, se a scuola, in orario extra e senza obbligo, si fanno i cineforum o le gare di atletica, si possono tranquillamente anche fare le benedizioni in occasione della Pasqua cristiana.
Ma non è finita qui, dove almeno il buon senso dovrebbe consigliare di chiudere la questione, i genitori ricorrenti annunciano di volersi rivolgere alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la stessa che si è già pronunciata in senso altalenante sull’analoga questione dei crocifissi nelle aule. A mio giudizio dimostrano di avere del tempo da perdere in un settore, quello dell’educazione e della formazione dei giovani, che avrebbe bisogno semmai di recuperare in fretta il tempo perduto.
Viene spontanea a me credente, non tanto in quanto culturalmente e politicamente rispettoso del principio della laicità, ma in quanto assertore della forza intrinseca del messaggio cristiano, che non ha certo bisogno della ostentazione di simboli e del favore di sentenze per porsi all’attenzione degli uomini, una reazione del tipo: «Ma vadano a farsi benedire! Non vogliono il crocifisso e l’acqua santa? Se si accontentano di così poco…accontentiamoli!».
Certo sarebbe molto meglio che i genitori anziché rincorrere i fantasmi dell’ostilità religiosa, che è cosa diversa dalla laicità, anziché coltivare l’intransigenza laicista che è cosa diversa dalla laicità, anziché sfogare il loro anticlericalismo di facciata che è cosa diversa dalla laicità, si dedicassero ad approfondire e fare meglio il loro mestiere, perché ce ne sarebbe bisogno. I simboli cristiani e la proposta che essi sottendono, seppure inseriti in un rigoroso e proficuo contesto multiculturale e multireligioso, non possono certo disturbare né i giovani in cerca di bussola, né i loro educatori che dovrebbero loro fornirla.
Mio padre – non era un cattolico praticante, ma nemmeno un ateo impenitente, forse un diversamente credente, soprattutto molto tollerante e rispettoso nei confronti della Chiesa cattolica e delle sue istituzioni – di fronte alle battute degli amici che, in un mix di machismo e di anticlericalismo, osservavano nei suoi figli una educazione rigorosamente cristiana, impartita dalla moglie, rispondeva in tono minimalista, ma assai eloquente: «I van in céza…mäl al neg fa miga sicùr…». «E po’, aggiungeva, tùtta la mè famija la va in céza, mè mojéra e i mè fiô par pregär e mi…par lavorär». Eseguiva infatti spesso decorazioni e affreschi in chiese di campagna: il lavoro che lo gratificava di più.
Laicità, rispetto per la religione, buon senso, umiltà, serenità d’animo, occhio ai valori, con l’aggiunta di un pizzico di sana ironia: tutto quanto oggi manca e se ne vedono i risultati.