In questi giorni di fine e inizio anno, durante i quali, vuoi per distrazione di massa, vuoi per concentrazione indotta sui grandi temi, la gente non è stata attenta alla politica spicciola, preferendo i cenoni e gli appelli altolocati, ho intravisto una contraddizione inquietante tra la sensibilità culturale e il consenso partitico.
Il professor Luigino Bruni, durante la trasmissione televisiva “A sua immagine”, ha acutamente osservato come questa volta gran parte degli scambi augurali siano avvenuti all’insegna della speranza in un nuovo anno portatore di pace o almeno di convivenza pacifica. E allora perché, stando almeno ai sondaggi, aumenta il consenso, in Italia e nel mondo, a personaggi e politici più o meno guerrafondai o che comunque imprigionano i massimi sistemi pacifici in una asfittica e bellicista realpolitik?
Non si tratta solo della difficoltà di passare dal dire al fare pace, ma probabilmente dalla (quasi) impossibilità di passare dal cuore al cervello: il sentimento comune infatti direbbe pace, mentre il ragionare e discernere politico ripiega inesorabilmente sul “vis pacem para bellum”.
Mi permetto di aggiungere una domanda, peraltro già posta in sede di commento ai fatti del giorno: come mai il presidente Mattarella riscuote tanta fiducia dalla gente, che però non si traduce in scelta politica nelle urne. Piuttosto inspiegabile, a meno che non si considerino le parole del Capo dello Stato come diversivi sentimentaloidi o non si consideri paradossalmente l’astensionismo come consenso a chi parla bene ma non ha il potere di fare altrettanto bene.
Azzardo qualche (plausibile?) risposta. Finito il richiamo forte delle ideologie, il consenso si forma e si basa sulla concretezza delle soluzioni ai problemi, e qui casca l’asino della debolezza politico-programmatica dei partiti in campo. Scatta la perniciosa pseudo-convinzione che siano tutti uguali e che quindi il consenso debba andare a chi la spara più grossa a prescindere dalla fattibilità della proposta messa sul tavolo.
Se saliamo dalla spontanea cucina delle ricette facili al salotto mediatico prezzolato e indirizzato direttamente o indirettamente al mantenimento dello status quo, il risultato non cambia, addirittura il consenso è ancor più confusamente drogato e malamente orientato dal vociare dei social.
Se poi ci accingiamo a mangiare la minestra della classe politica passata dal convento del potere, c’è da preferire di saltare dalla finestra. Non emerge alcun personaggio in grado di garantire seri percorsi sulla via del bene comune. E allora, torniamo daccapo, vince chi la spara più grossa, chi non sa un cazzo ma lo dice bene, chi sa dire all’elettore quello che desidera sentirsi dire a prescindere da tutto.
In generale la classe politica sta abdicando, in modo a volte subdolo a volte sfacciato, al potere economico: ecco allora spuntare il teorema, indimostrabile ma comodo, della capacità a perseguire l’interesse pubblico da parte di chi sa ben concretizzare quello privato. Nelle recenti elezioni presidenziali statunitensi è successo proprio questo, vale a dire che i cittadini si sono affidati ad una cricca di affascinanti ricconi, stimati capaci di affrontare e risolvere i problemi dei poveracci.
Il cerchio si sta quadrando: le alternative politiche non esistono, le prospettive di cambiamento evaporano in breve tempo, il livello della dirigenza è penoso, la gente non trova riferimenti e sfoga la propria insoddisfazione nell’astensionismo o nel voto intestinale. Le pochissime voci autorevoli provengono da istituzioni senza potere immediato e quindi immediatamente relegate nel libro dei sogni, vuoi religiosi vuoi costituzionali. Sì, perché nel bailamme politico-culturale rimangono solo due pilastri su cui basarsi: il Vangelo e la Costituzione italiana.
Mi sovvengono le geniali ed evangeliche provocazioni liturgiche del mio indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia. Durante la celebrazione del Battesimo sull’altare venivano posti due riferimenti essenziali: la Bibbia e la Costituzione italiana. L’una chiedeva al cristiano la fedeltà alla Parola di Dio, l’altra al cittadino l’attivo rispetto dei principi democratici posti a base del vivere civile. Discorsi più che mai attuali di fronte all’invadente “nulla” culturale e al deviante ed assorbente “tutto” della politica ridotta a strumento dell’economia anti-sociale.
Non era forse di stampo scaccagliano il dialogo a distanza avvenuto in questi giorni fra Sergio Mattarella e papa Francesco? Se le sono cantata in perfetta sintonia, salvo verificare che i potenti alzano le spalle e continuano imperterriti a fare i loro porci comodi, mentre i deboli vedono una luce in fondo al tunnel, ma temono che possa trattarsi di una illusione ottica. Rimane solo l’auspicio che possa essere la fiammella della candela della speranza, che ci consenta di riaccendere quelle della pace, della fede e dell’amore.