La culla di Bari e la mangiatoia di Betlemme

«Il neonato senza nome, ritrovato esanime nella culla, è una speranza di vita negata, e rappresenta il culmine di una serie di fragilità e difficoltà sociali, che spesso non emergono alla luce dei riflettori. È un richiamo urgente per tutti noi: nessuna vita, dal concepimento fino all’ultimo respiro, sia abbandonata nell’indifferenza. È un invito a un impegno più forte, collettivo, per dare supporto a chi si trova in condizioni di vulnerabilità, per costruire una società che non lasci indietro nessuno, anche nelle situazioni più difficili. Con amarezza profonda prendiamo coscienza che dietro la vetrina luccicante del Natale, esistono storie di solitudine, di fragilità e di disperazione, che non possiamo ignorare. Simbolo di rinascita, di solidarietà e di vicinanza, il Natale di Gesù ci invita a guardare oltre le apparenze, a cogliere le difficoltà e le sofferenze che talvolta si nascondono dietro a sorrisi forzati e auguri di circostanza».

È un passaggio della lettera che il vescovo di Bari ha scritto sul fatto del neonato morto nella culla termica. Non sono un integralista, ma sono sempre più condizionato dalla saggezza proveniente dalla vecchiaia: di fronte a questi incresciosi episodi l’unica reazione plausibile è quella offerta dalla religione e allora faccio di seguito riferimento al commento di padre Ermes Ronchi al prologo del vangelo di Giovanni.

Questo ci assicura che un’onda amorosa viene a battere sulle rive della nostra esistenza, che c’è una vita più grande e più amante di noi, alla quale attingere. Cristo non è venuto a portarci una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, pulsante di desiderio. Sono venuto perché abbiate la vita, in pienezza (Gv 10,10). Gesù non ha compiuto un solo miracolo per punire o intimidire qualcuno. I suoi sono sempre segni che guariscono, accrescono, sfamano, fanno fiorire la vita in tutte le sue forme.  Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo. E in noi, il suo volto.

“Veniva nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo”, nessuno escluso. “La luce splende nelle tenebre, ma esse non l’hanno vinta”.   Ripetiamolo a noi e agli altri, in questo mondo duro: le tenebre non vincono. Mai.

“Venne fra i suoi ma i suoi non l’hanno accolto”. Dio non si merita, si accoglie. Facendogli spazio in te, come una donna fa spazio al figlio che le cresce in grembo.

Purtroppo la similitudine della donna e del figlio non basta, ma resta il dolce, pressante e imprescindibile imperativo ad accogliere Dio: solo Lui ha risposte convincenti ai drammi umani.

Aborto: non è una risposta, ma una scappatoia. La culla termica di riserva: funziona, più che mai, fino ad un certo punto. I servizi sociali: non possono aiutare chi non può o non vuole essere aiutato. La comunità cristiana: deve ammettere i propri limiti e i propri difetti. La società: arranca, si può arrabattare, ma finisce col lasciare comunque indietro qualcuno.

E allora, dopo aver fatto tutti i doverosi sforzi possibili e immaginabili, ci dobbiamo convincere della nostra inadeguatezza, non per arrenderci, ma per impegnarci nella logica della carità che va oltre l’umana solidarietà. Dobbiamo cioè buttare la palla in quella tribuna dove si gioca la vera partita: la tribuna della fede in un Dio che si è fatto uomo e che rappresenta l’unica risposta concreta ai drammi umani, perché è disposto a condividerli fino in fondo.

“E la vita era la luce”. Cerchi luce? Ama la vita, abbine cura, falla fiorire. Amala, con i suoi turbini e le sue tempeste ma anche con il suo sole e i suoi fiori appena nati, in tutte le Betlemme del mondo. Amala! È la tenda del Verbo, il santuario che sta in mezzo a noi.

Mio padre, non certo un bigotto, ma nemmeno un credente convinto, forse, come si dice oggi, un diversamente credente, quando qualcuno definiva assurda ed illusoria la risposta della religione cattolica ai misteri della vita, della morte, dell’aldilà e dell’aldiquà, era solito rispondere “Catni vùnna ti !!!”.