Le dimissioni di Ernesto Maria Ruffini dalla direzione dell’Agenzia delle entrate sono in un certo senso la sintesi delle contraddizioni di un sistema avviato a diventare sempre più un vero e proprio regime a cui danno fastidio i funzionari che rispondono alla propria coscienza e alla Costituzione e non agli indirizzi, peraltro sconclusionati, del governo.
Anche a prescindere dall’attuale momento politico, esiste un problema di compatibilità fra la dirigenza della pubblica amministrazione e la dirigenza governativa: difficile delineare regole e condizioni del rapporto tra chi governa e chi guida la macchina operativa dello Stato. La burocrazia tende ad essere autoreferenziale e a bypassare le fonti normative piegandole spesso alla propria continuità di vita. Il governo tende a considerare la burocrazia come terreno di conquista, come macchina da guidare a proprio uso e consumo e non nell’interesse pubblico.
Credo che Ruffini sia rimasto schiacciato in questa tenaglia esercitando un sacrosanto diritto di critica nei confronti degli indirizzi governativi in materia di lotta all’evasione, condotta a forza di condoni e tarpata da una concezione minimalista del fisco visto come elemento di disturbo della quiete pubblica e non come fattore di equità contributiva e di redistribuzione reddituale.
Resta da chiedersi il perché Ruffini sia riuscito a trovare un modus vivendi coi precedenti governi e abbia invece registrato un insopportabile cortocircuito con l’attuale compagine governativa e in particolare con i ministri di riferimento. Evidentemente è cambiata l’aria che è diventata irrespirabile per chi voglia mantenere un minimo di autonomia a livello professionale e dirigenziale. Questo clima è tipico dei regimi anti-democratici!
Male ha fatto però Ruffini ad offrire su un piatto d’argento le farisaiche motivazioni a chi lo voleva emarginare: il suo pur legittimo interesse alla politica spicciola ha scatenato un processo alle intenzioni teoricamente incompatibili col ruolo amministrativo ricoperto. Così facendo, chi aveva mille ragioni per segnare la propria autonomia di giudizio e di comportamento rischia di passare dalla parte del torto con buona pace per il governo e le sue scorribande fiscali.
Non sono per mia natura ed esperienza portato a santificare i pubblici operatori, mantenendo verso di essi un innato scetticismo, ma non posso accettare le intromissioni governative a loro carico, l’insofferenza alla loro professionalità se non condita con l’opportunismo. Di opportunismo in giro ce n’è parecchio, basti pensare alla Rai trasformata in bollettino meloniano con l’assenso dei giornalisti che legano l’asino dove vuole il padrone di turno.
Da bambino ho chiesto ripetutamente a mio padre di darmi alcuni ragguagli su cosa fosse stato il fascismo. Tra i tanti me ne diede uno molto semplice e colorito. Se c’era da scegliere una persona per ricoprire un importante incarico pubblico, prendevano anche il più analfabeta e tonto dei bottegai (con tutto il rispetto per la categoria), purché avesse in tasca la tessera del fascio e ubbidisse agli ordini del federale di turno. «N’ éra basta ch’al gaviss la tésra in sacòsa, po’ al podäva ésor ànca un stupidd, ansi s’ l’éra un stuppid, ancòrra méj…».
Per dirla con mio padre, evidentemente Ernesto Maria Ruffini non corrispondeva ai suddetti cliché e ha dovuto trarne le conseguenze. Auguro a lui un roseo futuro professionale. Quanto all’eventuale carriera politica che non gli può essere minimamente preclusa, non vorrei che diventasse la buccia di banana su cui far scivolare la sua esemplare dignità.