Mentre il ministro degli Esteri Tajani, dando voce a preoccupazioni diffuse, chiede ai nuovi governanti siriani garanzie di rispetto dei diritti delle minoranze, tra cui quelle cristiane, il governo italiano chiude le porte ai richiedenti asilo provenienti da quel Paese. È il primo atto politico nei confronti del nuovo corso di Damasco, emanato beninteso in buona compagnia europea. Come se interessasse soltanto che da quel Paese non giungano più fastidiose richieste di protezione umanitaria. Invece di preoccuparsi dell’instaurazione di un regime democratico, impegnato nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani, alieno da propositi di vendetta nei confronti degli ex oppressori, i governanti europei sembrano avere in mente un solo problema: fermare i flussi di profughi. Anche a costo di attribuire una patente di Paese sicuro a un regime che non ha ancora neppure cominciato a rivelare quali saranno le sue autentiche linee di condotta, mentre già giungono notizie inquietanti dal confine interno con la regione nord-orientale del Rojava sotto controllo curdo.
Come per altri tentativi di transizione da governi oppressivi a un nuovo ordine tutto da costruire, dall’Unione Europea non giunge una proposta ambiziosa e costruttiva, capace di combinare apertura politica, aiuti economici e garanzie democratiche. A noi sembra premere soltanto che non arrivino più rifugiati da accogliere. La scelta di una linea di respiro così corto da parte dei governi Ue appare ancora una volta dettata dalla percezione di un’opinione pubblica vista come ostile ai rifugiati provenienti dal Sud del mondo e incline ad appoggiare agende politiche sovraniste. I leader europei sembrano oggi soprattutto ansiosi di mostrarsi capaci di chiudere le frontiere a chi fugge, di ridurre l’accoglienza, di accrescere i respingimenti. Pure profughi come quelli siriani che, se riuscivano a toccare terra sul suolo dell’Unione, ottenevano quasi sempre lo status di rifugiati riconosciuti, sono diventati da un giorno all’altro falsi rifugiati e ospiti sgraditi. (dal quotidiano “Avvenire – Maurizio Ambrosini)
La visione internazionale italiana ed europea non brilla certamente per apertura e lungimiranza. La novità siriana ne è ulteriore dimostrazione. Ci sarebbe da preoccuparsi di tanti aspetti inquietanti derivanti dalla svolta siriana e allora tanto vale preoccuparsi di parare preventivamente gli schizzi migratori, facendo magari pagare un assurdo prezzo a chi è già e magari da parecchio tempo in attesa di essere regolarmente ospitato in Italia e in Europa. Sì perché questa disumana misura è stata concertata a livello europeo.
Che pena! Siamo in mano a governanti che non vedono oltre il proprio naso, senza cervello e senza cuore, che puntano immediatamente ed esclusivamente alla pancia. È farisaico preoccuparsi della democrazia altrui se non si fa nulla per aiutarla ad instaurarsi e crescere: cosa combineranno i nuovi governanti siriani? Si potrà aiutarli a desistere dagli intenti terroristici per approdare ad un regime democraticamente accettabile? Non ci si preoccupa nemmeno dei contraccolpi in chiave di terrorismo internazionale, meglio ripiegare sugli immigrati, argomento che fa cassetta elettorale.
A niente sembra valere l’eventuale prospettiva che da Libano e Turchia rientrino in Siria i rifugiati fuggiti dal regime di Assad: varrebbe forse la pena aspettare un attimo prima di sbarrare i confini che magari si potrebbero aprire in senso contrario. In materia di blocco degli immigrati la ragion non vale: basti pensare alla vergognosa manfrina dell’esportazione in Albania.
La filosofia meloniana, salviniana e ursuliana assomiglia molto a quella di un mio zio, che viveva e lavorava a Genova: quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva».