Ma a deflagrare in Israele è stata la protesta dei familiari dei rapiti. Come ogni sabato sera, migliaia si sono radunati in “piazza degli ostaggi” per chiedere le dimissioni del premier Benjamin Netanyahu e un accordo immediato per riportare a casa i 107 nella Striscia. Con una forma di protesta choc, il Forum dei familiari ha diffuso un video che denuncia la possibilità che le donne stuprate abbiano dato alla luce i figli dei loro aguzzini. Le autorità ne hanno bloccato la pubblicazione integrale: nella versione di 20 secondi, si vedono in bianco e nero l’interno di un tunnel, la sagoma di un corpo femminile e il profilo di un pancione; si odono urla di dolore e il pianto di un neonato. «Queste voci non sono solo nella nostra testa – è il messaggio –. Esistono nelle profondità dei tunnel di Gaza. A più di 9 mesi dal loro rapimento… Devono essere portate a casa. Ora». Con la riapertura delle scuole, stamani molti studenti indosseranno una maglietta gialla, il colore della solidarietà con gli ostaggi. (dal quotidiano “Avvenire” – Anna Maria Brogi)
Non so se l’accanimento terroristico di Hamas abbia raggiunto questi limiti e/o se gli orrori lasciati emergere o immaginare siano un mezzo per giustificare gli orrori reciproci, finendo col rendere soltanto l’idea del tunnel infernale in cui la guerra ci ha introdotto e in cui sembra non esserci possibilità di portare a più miti consigli chi vuole vendicare gli orrori commettendone altri e persino più brutali.
Già violentare una donna presa in ostaggio è qualcosa di orribile, se ci aggiungiamo la conseguente eventuale gravidanza della donna violentata scendiamo nella paradossale disumanità totale: non riesco nemmeno ad immaginare i passi successivi.
In questi giorni conversando al telefono con un mio cugino, persona particolarmente sensibile, non riuscivo a trovare parole sufficienti a descrivere l’orrore per quanto sta accadendo nel mondo nella indifferenza della politica e purtroppo anche di gran parte dell’opinione pubblica. E allora è emersa la principale reazione a come stanno andando le cose: l’indignazione!
Indignarsi non è un atteggiamento di comodo, ma dovrebbe essere il presupposto per reagire attivamente ad un andazzo inaccettabile. Sarebbe interessante vedere cosa si possa fare sul piano politico, sociale, relazionale e personale. Come sosteneva il mio carissimo medico nel suo ambito professionale, c’è sempre qualcosa da fare: vale per la salute fisica, ma forse ancor più per quella umana complessiva.
L’impegno a tutti i costi! Ognuno di noi vive una diversa situazione di vita, ma tutti abbiamo il compito di costruire qualcosa di “buono” che è il modo migliore per demolire il “cattivo” che è in noi e fuori di noi. Qualche piccola goccia di pace la possiamo aggiungere per annacquare il mare di guerra che ci avvolge e ci sconvolge.
Sul piano religioso è ipotizzabile che solo Dio possa ricavare il bene dal male che stiamo combinando e allora vale la pena ascoltare cosa dicono gli uomini di Chiesa. L’unica arma per avviare processi di pace è il perdono. Tutti invece pensano solo alla vendetta pur mascherata da ricerca della giustizia. E, cosa ancor più grave, tutti si nascondono dietro la loro religione: vale per i musulmani, ma anche per gli ebrei.
Ha affermato il Patriarca Pizzaballa: «La comunità cristiana deve portare dentro il dibattito pubblico la possibilità del perdono. Forse ora non si può fare. Bisogna attendere e lavorare a livello personale, comunitario e pubblico». E ha aggiunto: «Parlare di perdono in Terra Santa non è un’astrazione. Giustizia, perdono, sono per noi parole importanti, difficili e che toccano concretamente la carne e la vita delle persone». Se questo può apparire astrazione agli occhi di chi non crede, per la fede cristiana non è così: essa «non può essere separata dall’idea di perdono. La fede è l’incontro con Cristo che ti salva e perdona», e Lui «sulla croce non ha atteso che si facesse giustizia per perdonare. Ha perdonato». Certo, «perdonare senza che ci sia dignità e uguaglianza significa giustificare un male che si sta compiendo.
Il perdono chiede dinamiche che vogliono tempo, un processo di guarigione e un tempo di riconoscimento del male e dell’ingiustizia commessa. Il perdono ha bisogno anche di una parola di verità… Non è semplice. Per un palestinese oggi perdonare significa giustificare quello che sta accadendo. Non può farlo. Deve attendere. Ma come pastore – ha concluso Pizzaballa – devo ricordare che la giustizia senza perdono diventa recriminazione. Può diventare vendetta. Lo scopo non è relegare l’altro in un angolo, ma superare questa situazione: e questo lo può fare solo il perdono». Credere nella forza del perdono è proprio di chi nella preghiera ha chiesto e ottenuto perdono da Dio: perciò la preghiera è e resta la grande scuola di umanità, dove imparare tutti ad accoglierci gli uni gli altri, a chiedere e offrire il perdono, a sentirci amati dal Padre di tutti per imparare a riconoscerci uniti dal Suo amore, più grande di ogni nostra misura. Anche così, “c’è rimasta solo la preghiera”, perché la fede sa che solo essa ci potrà salvare! (dal quotidiano “Avvenire” – Bruno Forte)