La radice malata impone il trapianto dell’albero

Sono passati parecchi anni da una sera in cui volli leggere la ricostruzione, così come pubblicata dai giornali ed emergente dagli atti processuali, dell’orrendo delitto di Novi Ligure: l’uccisione a coltellate, da parte di Erika (16 anni) e del fidanzato Omar (17 anni), della madre della ragazza e del fratello di 11 anni, un piano criminale in cui era prevista anche la soppressione del padre di Erika.

Ad un certo punto dovetti interrompere la lettura: emergevano elementi di tale ferocia da mettere in crisi anche il più imperturbabile appassionato di racconti horror e io non ero e non sono imperturbabile e tanto meno amante dell’horror.

L’emergenza horror è tornata di grande attualità con l’incredibile omicidio di una giovane donna ad opera di un ragazzo che uccide per motivi non meglio precisabili chiedendo addirittura scusa durante il misfatto e il pluriomicidio dei propri famigliari ad opera di un diciassettenne che non si dà una spiegazione e lascia solo intendere un certo malessere relazionale.

La crudeltà totalmente immotivata, la bestiale violenza omicida ridotta a mero esercizio e riscatto della propria (im)maturità, l’efferata uccisione dei propri famigliari considerata come rimozione di una pietra d’inciampo: cosa può succedere nell’animo delle persone per portarle a simili catastrofi umane?

Sono le domande che anche in questi giorni mi sono rifatto, leggendo ed ascoltando le fastidiose, in quanto insistite e compiaciute, cronache dei suddetti delitti. Emergono motivazioni risibili, molto simili fra di loro e paradossalmente sconvolgenti. Forse sarebbe opportuno fare silenzio, non cercare spiegazioni, provare solamente grande pietà senza imbarcarsi in giudizi temerari.

Allora come ora invece mi sono dato due (non) risposte, legate tra di loro: una di carattere religioso e una di tipo etico. Non sono un fanatico portato a drammatizzare e schematizzare la lotta fra il bene e il male, ma davanti a questi fatti ammetto di pensare con una certa insistenza alla presenza del demonio, che approfitta della debolezza di certi soggetti arrivando ad impersonificarsi in essi e ad agire con una forza distruttiva arginabile solo a monte e non a valle. La seconda risposta, causa/effetto rispetto alla prima, mi porta a ritenere che nel vuoto assoluto valoriale e ideale si possa rischiare di essere posseduti dal demonio ed essere sopraffatti da vampate maligne di ribellione estrema contro chi simboleggia le regole di vita e magari osa ricordarle.

L’elemento che rende più umanamente inspiegabile questi comportamenti delittuosi, non è tuttavia  tanto la crudeltà (un dato presente in molte vicende umane personali e collettive), non è tanto la futilità dei motivi scatenanti, né la giovane età dei protagonisti, né i legami con i destinatari della violenza (talora stretti, talora inesistenti), ma l’imbambolata indifferenza del dopo-delitto, che si accompagna  alla mancanza di rimorso e di ravvedimento (all’atto della confessione del delitto stesso). È vero che nella coscienza di un individuo non si riesce a leggere, ma tutto lascia pensare alla mancanza di coscienza (qualcuno dice mancanza del senso di colpa). Se un uomo è senza coscienza, non è una bestia perché gli rimane l’intelligenza, è un demonio. È questo che mi induce a considerare demoniaci questi comportamenti, non in senso figurato ma in senso proprio.

Il recupero è sempre possibile e deve essere tentato. Il cammino si presenta molto arduo: qualcuno sostiene che l’unica medicina efficace sia il lavoro, un lavoro duro, faticoso, non una tortura ma nemmeno un breve stage pseudo-professionale. Creare la coscienza in un individuo è molto più difficile che aiutarlo a pulirla, se esiste.

La psicologia, la sociologia, la scienza medica possono trovare per questi episodi tante motivazioni sociali, familiari, ambientali, educative: le conosco, le rispetto, ma non mi convincono. Queste analisi possono servire a responsabilizzare tutti coloro che operano a contatto con i giovani e tutti noi che viviamo in questa società così strampalata. Lasciamo perdere le sbrigative risposte repressive, certe strumentali e vomitevoli analisi pseudo-politiche e anche le argomentazioni del sociologismo datato (tutta colpa della società) e del psicologismo fragile (gli stress della vita moderna).

Chiedo scusa se faccio un balzo nel mio vissuto famigliare. Mia madre, pur partendo dal sostanziale rigore con cui impartiva i suoi pragmatici ma “dogmatici” insegnamenti, perdonava molto, quasi tutto, ai giovani, era inflessibile con le persone attempate cui assegnava un compito educativo imprescindibile. Così come era rigorosa ed implacabile con gli anziani era portata a giustificare chi delinqueva, commentando laconicamente: “jén dil tésti mati”.

Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”

Non mi improvviso esperto di teologia, di psicologia e di sociologia, scienze verso cui mantengo un sano atteggiamento di scetticismo.  Rimangono comunque davanti a noi dei comportamenti che temo possano essere riconducibili direttamente o indirettamente al demonio; se la vogliamo dire in senso laico, al gusto di fare il male per il male (se non è demoniaca questa pulsione più che bestiale…gli animali infatti hanno sempre un motivo per i loro attacchi violenti…).

Racconta Vittorino Andreoli, il noto esperto e studioso di psichiatria criminale, di avere avuto un importante e toccante incontro con papa Paolo VI, durante il quale avranno sicuramente parlato non di meteorologia ma di rapporto tra scienza e religione nel campo della psichiatria e dello studio dei comportamenti delinquenziali. Al termine del colloquio il pontefice lo accompagnò gentilmente all’uscita, gli strinse calorosamente la mano e gli disse, con quel tono a metà tra il deciso e il delicato, tipico di questo incommensurabile papa: «Si ricordi comunque, professore, che il demonio esiste!».

Gira e rigira, tutto serve, la sociologia, la criminologia, la psicologia, la psichiatria (ho letto e ascoltato gli esperti: bravissimi…), ma niente risolve. Ricordo un breve dialogo con un mio carissimo collega di lavoro: anche lui si chiedeva i motivi e gli sbocchi di queste derive umane (peraltro giovanili). Non seppi che introdurre la similitudine dell’automobile in corsa senza freni: non si sa dove possa andare a finire. Non resta che fermare la macchina, sottoporla ad una totale revisione e ripartire con obbligo di rodaggio.

Nel Vangelo Giovanni Battista presenta Gesù come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Scrive p. Ermes Ronchi a commento: «Toglie il peccato del mondo, il peccato al singolare, non i mille gesti sbagliati con cui continuamente laceriamo il tessuto del mondo, ne sfilacciamo la bellezza. Ma il peccato profondo, la radice malata che inquina tutto. In una parola il disamore. Che è indifferenza, violenza, menzogna, chiusure, fratture, vite spente…».

Ho cominciato la mia riflessione con una disperata ammissione di presenza maligna, la termino con la delicata “rivoluzione della tenerezza” di Dio in Gesù Cristo (papa Francesco).