Dahiyeh è “la roccaforte” di Hezbollah, ed è qui che alle 19.45 di Beirut un intero edificio residenziale di otto piani è stato trapassato e abbattuto da un missile israeliano. Nel mirino c’era Fuad Shukr, consigliere militare del leader del movimento sciita filo-iraniano, Hassan Nasrallah. Fonti da Beirut affermano che Shukr non sarebbe sopravvissuto, contrariamente a quanto era emerso dopo l’operazione. Conosciuto anche come Hajj Mohsin, era ritenuto dall’intelligence israeliana a capo del progetto missilistico di precisione di Hezbollah. È anche ricercato dagli Usa per il suo ruolo nel bombardamento del 1983 contro la caserma dei marines americani a Beirut, quando si contarono 241 morti tra gli americani e 56 paracadutisti francesi.
La ritorsione israeliana promessa dopo la strage dei bambini drusi nel Golan è piombata dove la diplomazia sperava non accadesse. Le forze armate di Tel Aviv poco dopo hanno confermato di aver effettuato un raid aereo sulla capitale libanese per uccidere il comandante di Hezbollah che sarebbe dietro l’eccidio di Majdal Shams. «Hezbollah ha oltrepassato la linea rossa», ha dichiarato il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant pochi minuti dopo l’attacco. Il governo libanese ha reagito denunciando l’operazione israeliana come un «atto criminale» e ha detto che si riserva il “diritto di prendere misure” per scoraggiare “l’ostilità israeliana”. L’Iran lo ha definito «attacco vile». Di «flagrante violazione del diritto internazionale», ha parlato il ministero degli Esteri russo alla Tass. Dallo Yemen gli Houthi hanno condannato il raid e minacciato nuovi attacchi. (dal quotidiano “Avvenire” – Nello Scavo)
Per ritorsione si intende l’opposizione di atteggiamenti ostili a iniziative ostili altrui, spesso con l’idea di una reazione sproporzionata al torto ricevuto. Volgarmente parlando la si può chiamare vendetta, che può dare l’illusione di rimettere in pari le questioni. In realtà, anche prescindendo da principi etici e religiosi, si tratta proprio di un’illusione, perché vendetta chiama vendetta in un’inarrestabile catena di reciproci misfatti.
Hamas ha comunicato la morte del suo leader Ismail Haniyeh in seguito a un attacco israeliano contro la sua residenza a Teheran. Attacco che è avvenuto alle 2 di notte ora locale. Secondo l’agenzia di stampa saudita Al-Hadath, la residenza è stata colpita da un missile guidato. Haniyeh era capo dell’ufficio politico di Hamas dal 2017. Inoltre è stato primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese dal 2006 al 2007 e capo dell’amministrazione della Striscia di Gaza dal 2014 al 2017.
Un funzionario iraniano ha dichiarato che “agenzie di sicurezza” della Repubblica islamica decideranno “la nostra strategia di risposta” all’assassinio di Haniyeh. “Un atto codardo e uno sviluppo pericoloso”. Così il presidente palestinese Abu Mazen ha condannato l’uccisione del capo politico di Hamas, invitando “il popolo palestinese e le forze popolari all’unità, alla pazienza e alla fermezza di fronte all’occupazione israeliana”. (Ansa.it)
Gli israeliani avranno tirato un sospirone di sollievo, si saranno sentiti ripagati del tremendo eccidio subito alcuni mesi fa ad opera di Hamas? Potrei capirli se non considerassi l’inestimabile prezzo fatto pagare alla popolazione civile palestinese, se non vedessi le catastrofiche conseguenze di una escalation bellica la cui portata è semplicemente devastante per tutto il mondo.
O usciamo da questo clima di odio e vendetta o rimaniamo invischiati in una orribile catena bellica di cui non si vede la fine. I governanti di Israele vanno avanti imperterriti, le formazioni più o meno terroristiche, mi riferisco ad Hamas e Hezbollah, non aspettano altro che lucrare consenso da un simile clima di contrapposizione, i palestinesi non riescono a trovare il filo della matassa tanto è ingarbugliata e non scelgono ma subiscono la loro classe dirigente che li porta alla distruzione.
Il resto del mondo sta a guardare palleggiandosi tra l’alleanza di principio con Israele e la discussione sulla Palestina, lunga cento anni, dei due popoli-due Stati. Gli Usa non giocano un ruolo costruttivo condizionati come sono da imprescindibili e lobbistici legami d’affari con il mondo israeliano, l’Ue non ha voce e peso politico sufficienti per intervenire in modo fattivo, l’Onu è attestato da tempo immemorabile sull’invito ad Israele a ritirarsi dai territori occupati, i Paesi arabi fanno il loro gioco sporco così come la Russia e la Cina.
Le opinioni pubbliche sono tentate da rigurgiti di antisemitismo, dal tifo filo-israeliano, da simpatie viscerali filo-palestinesi, da spietata rassegnazione alla guerra fra popoli incapaci di convivere pacificamente, dal fascino esercitato dalla potenza militare vendicatrice di Israele, dallo sbrigativo manicheismo della insensata debolezza palestinese contrapposta alla brutale forza israeliana.
Non so sinceramente se sul piano politico-diplomatico la soluzione da perseguire testardamente sia quella del “due popoli due Stati”; di alcune cose sono certo: che con le ritorsioni e le vendette non si va da nessuna parte, che è perfettamente inutile cercare nel pagliaio l’ago del “torto e della ragione”, che l’unica opzione rimane quella della, pur faticosa al limite dell’impossibile, ricerca della pace ad ogni costo.