La fuffa farisaica non aiuta i moribondi

Ma davvero la Chiesa ha cambiato idea sul fine vita, come si legge, si vede e si ascolta su numerosi media? L’ipotesi lanciata da Repubblica.it e poi circolata anche altrove con le medesime parole è che ci sarebbe un’imprevista «apertura» su «alimentazione e idratazione» che «si possono sospendere». Tutto nasce dal rilancio dei contenuti di un recente volumetto della Pontificia Accademia per la Vita, edito dalla Libreria Editrice Vaticana, Piccolo lessico del fine-vita, del quale Avvenire pubblicò l’introduzione a firma del presidente monsignor Vincenzo Paglia il 27 giugno sulla pagina “è vita”. 

Nel capitolo su “Nutrizione e idratazione artificiali (Nia)” si ricorda che la loro sospensione a richiesta del paziente rientra tra i suoi diritti, che «il medico è tenuto a rispettare» quando «la volontà del paziente» è «consapevole e informata». L’Accademia nota che «nelle malattie in cui si protrae uno stato di incoscienza prolungato con possibilità praticamente nulle di recupero – come nel caso dello stato vegetativo permanente –, si potrebbe sostenere che, in caso di sospensione delle Nia, la morte non sia causata dalla malattia che prosegue il suo corso, ma piuttosto dall’azione di chi le sospende». Occorre però considerare che «le singole funzioni dell’organismo, nutrizione inclusa – soprattutto se colpita in modo stabile e irreversibile –, vanno considerate nel quadro complessivo della persona e della sua dimensione corporea». Dunque sospendere la nutrizione in caso di malattia «stabile e irreversibile» e «con possibilità praticamente nulle di recupero» può essere il modo in cui si evita quel che il Papa ha definito «la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona», dunque astenendosi da forme di accanimento. Un’affermazione che conferma quanto scrisse l’allora Congregazione per la Dottrina della fede quando, rispondendo nel 2007 a un quesito dei vescovi americani, considerò la somministrazione della Nia «moralmente obbligatoria in linea di principio […] nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente». Criterio chiaro, confermato oggi. (dal quotidiano “Avvenire” – Francesco Ognibene)

Non ci ho capito quasi niente e non mi voglio minimamente addentrare in queste “azzeccagarbugliose” disquisizioni etico-religiose effettuate sulla pelle di chi soffre. Provo soltanto a immaginare cosa direbbe Gesù di questi moderni fariseismi. Ripeterebbe con ogni probabilità le stesse durissime parole di biasimo indirizzate ai farisei del suo tempo, che non erano stupidi e potevano essere persino in buona fede, ma avevano la presunzione di regolamentare cavillosamente i rapporti fra l’amore di Dio e la coscienza degli uomini: una contraddizione in termini, dal momento che l’amore non ammette regole e la coscienza le detta spontaneamente alla luce dell’amore.

Cosa volete che interessi al Padre Eterno della Nia, dell’Accademia per la vita, della Corte Costituzionale, del lessico del fine vita, del ministro Roccella e delle posizioni del Magistero: ci compatirà tutti perché ci ostiniamo a privilegiare la Legge pensando che ci possa salvare, mentre trascuriamo la Grazia che ci illumina e ci fa creature capaci di amare.

Sono perfettamente consapevole di essere un cattolico borderline: non mi faccio ingabbiare e cerco di pormi, a coscienza e cuore aperto, di fronte ai problemi, soprattutto a quelli riguardanti chi soffre. Mi sforzo di comprendere, rispettare e alleviare la sofferenza altrui: purtroppo non ci riesco, non tanto per lassismo verso i principi, ma per mancanza di impegno concreto. Il resto è fuffa farisaica riveduta e scorretta. Chi è inchiodato in un letto d’ospedale ad aspettare la morte ha diritto di avere risposte di carità e non magisteriali e rigidi pronunciamenti.

Infatti, come sosteneva don Andrea Gallo, «sulla base di una scelta chiara e consapevole della persona interessata, bisogna rispettare il suo diritto alla non sofferenza, a un minimo di dignità in ciò che rimane della vita. Ogni caso ha una sua trama e una valutazione diversa».

Il caro e indimenticabile amico e maestro don Luciano Scaccaglia, nelle sue ultime omelie, mettendo in contrasto la misericordia di Gesù con il moralismo della Chiesa, diceva: «Una cosa è certa: con Gesù è la fine della contrapposizione netta tra buoni e cattivi, è la fine “delle evidenze morali e dei concetti chiari e ferrei”, è la fine dei pregiudizi, a causa dei quali noi sappiamo sempre cosa occorre fare, però nella vita degli altri. Una cosa è certa: la severità della Chiesa, le sue rigide leggi non aiutano né testimoniano la misericordia di Gesù; non fanno maturare, ma umiliano».