Il primo colpettino di Kamala

«Non possiamo permetterci di essere insensibili alla sofferenza e non starò in silenzio» sulle violenze su Gaza. Così la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris ha fatto pressione sul primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu con l’obiettivo di raggiungere un accordo sul cessate il fuoco a Gaza, in modo da alleviare le sofferenze dei civili palestinesi. Harris ha assunto un tono più duro del presidente Joe Biden: «È tempo che questa guerra finisca», ha affermato in una dichiarazione televisiva dopo aver avuto colloqui faccia a faccia con Netanyahu. In altre parole, la probabile candidata democratica alla presidenza dopo che Biden si è ritirato dalla corsa elettorale domenica scorsa, non ha usato mezzi termini sulla crisi umanitaria che attanaglia Gaza dopo nove mesi di guerra tra Israele e i militanti di Hamas. Le osservazioni di Harris sono state taglienti, eppure se anche dovesse riuscire a essere eletta presidente degli Stati Uniti il prossimo 5 novembre, secondo gli analisti non ci sarebbe un cambiamento importante nella politica degli Stati Uniti nei confronti di Israele, considerato il più stretto alleato di Washington in Medio Oriente. (dal quotidiano “Avvenire”)

Consentitemi di riportare un piccolo episodio davanti al video, vale a dire una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.

Non vorrei che l’incipit di Kamala Harris, che assomiglia molto all’uovo di Colombo, fosse simile a quello dell’allenatore di cui sopra. Chissà quante volte Joe Biden avrà fatto pressione su Netanyahu per smettere di scaricare sui civili palestinesi il regolamento di conti con i capi e i militanti di Hamas: non illudiamoci quindi che basti una dichiarazione dai toni fermi e ultimativi. Netanyahu se ne sbatte di tutti i richiami e va per la sua strada. Tuttavia suscita in me un barlume di speranza l’atteggiamento della probabile candidata democratica alla Casa Bianca: mi illudo che possa rappresentare l’intenzione (almeno quella!) di cambiare approccio nella gestione dei rapporti internazionali, una partenza in salita contro l’inevitabilità delle guerre da cui ci sentiamo avvolti.

Sarebbe ora che il partito democratico americano desse almeno un segnale di novità: non si tratta di sconvolgere le alleanze, ma di collocarle in un contesto pacificatore. Difficile? Difficilissimo! Ci provino almeno. Non si lascino condizionare dalla potente lobby israeliana così come da quella dei produttori di armi e da quella di tutti coloro che sulla guerra lucrano guadagni enormi.

Combattere politicamente contro Donald Trump, un politico che ostenta un pragmatismo aggressivo ed egoistico, dovrebbe “istigare” la voglia di ripartire dai valori di cui la pace è sorgente e foce. Chiunque sia il candidato democratico, vinca la tentazione di scendere sul terreno trumpiano: nessuno riuscirà a batterlo sul suo piano. Bisogna cambiare logica, rischiando anche di perdere. Sempre meglio perdere sbandierando qualche principio democratico e qualche valore solidale, che perdere, perdendo la faccia oltre che le elezioni.