Alla fine, un Joe Biden debilitato dal Covid ha dovuto cedere alle pressioni di gran parte del Partito democratico e dello schieramento che negli Stati Uniti lo sostiene, dai media, alle personalità più note fino agli imprenditori e i finanziatori della sua corsa. Rinuncia a ricandidarsi il 5 novembre e lancia la sua vice Kamala Harris come sfidante di Donald Trump. Il presidente ha preso la decisione dopo una lunga meditazione personale, e sembra l’abbia fatto da solo, se è vero che gran parte dei collaboratori ha appresso della svolta dal suo messaggio sui social media nel pomeriggio di domenica (la sera in Italia).
Il presidente, 81 anni, oggetto di “fuoco amico” sin dal dibattito disastroso per i lapsus e le risposte inadeguate con il suo avversario repubblicano lo scorso 27 giugno, ha comunicato a sorpresa la scelta, quando ormai sembrava che non ci sarebbero stati annunci fino alla visita del premier israeliano Netanyahu fra due giorni. Invece, Biden ha ceduto all’improvviso alla montante campagna che lo voleva lasciare il campo politico.
«È stato il più grande onore della mia vita servire come vostro Presidente. E sebbene fosse mia intenzione cercare la rielezione, credo che sia nel miglior interesse del mio partito e del Paese che io mi dimetta e mi concentri esclusivamente sull’adempimento dei miei doveri di presidente per il resto del mio mandato», ha scritto il capo della Casa Bianca, dopo avere rivendicato i successi di tre anni e mezzo di presidente, dall’economia alle cure per i cittadini anziani fino alla tutela dell’ambiente e la limitazione delle armi, tutti temi cari ai progressisti.
In un altro messaggio, Biden ha quindi espresso il suo sostegno all’attuale vicepresidente. «La mia primissima decisione come candidato del partito nel 2020 è stata quella di scegliere Kamala Harris come mia vicepresidente. Ed è stata la migliore decisione che ho preso. Oggi voglio offrire il mio pieno sostegno e il mio endorsement affinché Kamala sia la candidata del nostro partito quest’anno. Democratici: è ora di unirsi e battere Trump. Facciamolo».
Ora ci sono poco più di 100 giorni al voto e il Partito democratico ha davanti un cammino stretto. La Convention di Chicago a metà agosto si aprirà con delegati liberi di dare l’incarico a Harris ma anche, potenzialmente, a un altro esponente del partito. Sarà il Comitato nazionale democratico a scegliere nei prossimi giorni le modalità, anche sulla base degli umori della base e dei big che hanno accompagnato Biden all’uscita di scena. (dal quotidiano “Avvenire” – Andrea Lavazza)
La speranza è l’ultima a morire, anche se è la medesima di quattro anni fa, ampiamente delusa dalla presidenza di Joe Biden: che gli Usa possano riscoprire e applicare i valori della loro migliore tradizione democratica. Ricordo benissimo il dopo-Trump, che sembrava partire sotto i migliori auspici di una riscossa valoriale a livello americano e internazionale. Strada facendo tutto si è appassito e siamo qui a parlare di dopo-Biden con lo spettro di un Trump-bis e con la prospettiva di una candidatura democratica politicamente debole.
Saprà il partito democratico ripartire dai principi che, nonostante tutto, sono alla base della sua storia? Saprà resistere alle sirene delle scorciatoie mediatico-finanziarie? Saprà liberarsi del peso delle lobby capaci di condizionare la politica schiacciandola su un vomitevole pragmatismo? Saprà interpretare le ansie e le problematiche fino ad ora conculcate dall’imperialismo latente e decadente degli Usa? Saprà gettare una boccata di aria solidale e pacifica su un mondo rassegnato alle guerre fredde, tiepide e calde.
Me lo auguro di cuore. Certo, questo lungo periodo del tiramolla bideniano si sarebbe potuto utilizzare ad elaborare un minimo di strategia politica ed elettorale alternativa a quella delinquenziale trumpiana. Non è mai troppo tardi. Speriamo che, al termine dell’insulso sfogliamento della margherita “mi ricandido, non mi ricandido”, non cominci il balletto delle possibili candidature inserite nel tritacarne presidenzialista americano.
Il partito democratico deve recuperare la sua “ideologia” da offrire alle fasce sociali in disperata ricerca di rappresentanza: non si accontenti del voto delle grandi metropoli, ma recuperi quello delle periferie territoriali e sociali, il voto dei “poveri” che possano convertire la loro disperazione filo-trumpiana in speranza filo-democratica possibilmente incarnata da un personaggio credibile e sensibile.
Respingo sdegnosamente l’atteggiamento nostrano del “gli americani si arrangino” che a livello politico si veste dell’ipocrita non interferenza. Siamo interessati, ci riguarda, eccome… “I Care” è il motto dei migliori giovani americani degli anni ’50/’60, significa “Me ne importa, mi sta a cuore”. Riadottiamolo coraggiosamente!