Finta democrazia e vera violenza

Non è la prima volta che gli Stati Uniti sono il palcoscenico di casi di violenza politica nei confronti di presidenti, ex presidenti e candidati presidenziali dei principali partiti. Quello a Trump sarebbe l’ultimo di una lunga serie di attentati che, secondo un rapporto del 2008 redatto dal Congressional Research Service, si sono verificati in 15 diverse occasioni, cinque delle quali fatali per le vittime.

In sostanza, delle 45 persone che hanno ricoperto la carica di presidente, 13 (ovvero circa il 29%) sono state oggetto di tentati omicidi, o omicidi veri e propri. Ovviamente, tale numero non include l’ultimo incidente che ha coinvolto Trump.

Secondo tale report, almeno sette degli ultimi nove Presidenti sono stati oggetto di attentati: tra i presidenti sopravvissuti agli attacchi ci sono Gerald R. Ford (due volte nel 1975), Ronald W. Reagan (una sparatoria quasi mortale nel 1981), Bill Clinton (quando la Casa Bianca è stata attaccata nel 1994) e George W. Bush (quando un aggressore ha lanciato un’arma da fuoco). Secondo fonti non confermate, ci sarebbero stati tentativi di omicidio anche nei confronti dell’ex presidente Barack Obama, Trump e di Biden.

Tornando indietro nel tempo, quattro presidenti in carica sono stati uccisi: Abraham Lincoln (1865), James A. Garfield (1881), William McKinley (1901) e John F. Kennedy (1963). Tre presidenti sono stati feriti in tentativi di omicidio: Ronald Reagan, mentre era in carica (1981), e gli ex presidenti Theodore Roosevelt (1912) e quello di oggi, ai danni di Donald Trump. In tutti questi casi, l’arma dell’aggressore era un’arma da fuoco. Altri due candidati alla presidenza – Robert F. Kennedy, ucciso nel 1968, e George C. Wallace, gravemente ferito nel 1972 – sono stati vittime di attentati. (Dal quotidiano La Stampa)

Dopo aver consigliato a tutti di leggere l’intero, dettagliato ed istruttivo excursus sugli attentati negli Usa ai massimi livelli istituzionale, passo alle mie riflessioni piuttosto strampalate, ma molto accorate e preoccupate.

Parto da una considerazione lapalissiana anche se molto imbarazzante. La violenza è di casa nella democrazia statunitense ed è sicuramente una delle cause che la rendono meno attendibile a dispetto di quanto possa affermare la storia politica: stragi nei college, violenze della polizia, armi a go-go, etc. etc. Lo scontro politico non può che risentirne. È nato prima l’uovo della società violenta o la gallina della politica che, tutto sommato, va a prestito direttamente o indirettamente dalla violenza?

Le reazioni dei big (?) della politica all’attentato a Trump sono tutte improntate alle grida contro la violenza nella battaglia politica: nessuno però ha il coraggio di chiedersi il perché la democrazia americana sia così pervasa dal virus della violenza e non riesca a scrollarselo di dosso, ma addirittura lo soffra in modo drammatico.

Mi permetto di far risalire questo corto circuito ad alcune cause: ne individuo tre in particolare, vale a dire il bellicismo imperante, l’autoritarismo strisciante e lo scetticismo isolante, peraltro tra di loro interconnessi.

Se i rapporti fra gli Stati vengono impostati sugli equilibri bellici, i cittadini hanno il “diritto” di pensare che anche i rapporti interni a livello socio-politico possano essere risolti con sbrigativa ed agghiacciante violenza. L’avversario diventa un nemico e tutto diventa lecito. Stando a Trump, la sua presidenza è stata un inno alla più spinta delle conflittualità nel mondo, al pugno duro contro i migranti, all’egoismo di Stato, fino ad arrivare persino al vagheggiamento di un colpo di mano, che probabilmente non aveva alcuna possibilità concreta di successo a livello istituzionale, ma poteva contribuire ad avvelenare ulteriormente gli animi.

Se l’ordinamento istituzionale (leggi democrazia presidenziale e squilibrio fra i poteri), quello politico (leggi bipartitismo imperfetto) e finanche quello elettorale (si ricordi l’elezione di Trump eletto da una schiacciante minoranza) diventano i polmoni atrofizzati della società, chi dissente radicalmente può arrivare a pensare a gesti estremi o meglio che la democrazia così chiusa ed impenetrabile possa essere un male estremo a cui rispondere con rimedio altrettanto estremo.

A quel punto mentre gli equilibri internazionali vengono basati sul sovranismo, i rapporti con gli elettori vengono impostati sul populismo, il sociale è dominato da lobbismo e corporativismo, l’economia non dà alcuno scampo con le sue insopportabili ingiustizie: la situazione non lascia spazio alcuno alla partecipazione democratica, il dissenso non trova sbocchi, il voto viene ridotto ad inutile rito pressoché referendario, la degenerazione del sistema, formalmente democratico, ma sostanzialmente autoritario, fa emergere un senso di disperata impotenza nei cittadini (qualcuno può essere portato a buttare il presidente nella merda).

Si può arrivare addirittura ad ipotizzare cinicamente e malignamente come la violenza e gli attentati possano diventare strumenti per annientare l’avversario, ma anche per accendere e strappare consensi. Un atroce dubbio al riguardo mi è sorto durante le cronache successive al fattaccio contro Trump, ascoltando come alcuni cittadini avessero scorto un uomo aggirarsi sui tetti, lo abbiano fatto presente alle autorità di sicurezza impegnate sul campo e queste non siano intervenute che a babbo ferito (Trump col pugno resistenziale alzato e la bandiera americana dietro le spalle), nipote ucciso (un malcapitato alla manifestazione) e ovviamente attentatore spazzato via come un animale (non si sa mai che potesse parlare…). La verità su come si sono svolti veramente i fatti non si saprà mai. Il paradosso è spesso normalità nella vita politica malata e nella democrazia agonizzante.

Qualcuno in modo fin troppo disincantato e malizioso arriva a chiedersi come mai, quasi sempre, gli attentati a personaggi politici, presidenti o aspiranti presidenti, di un certo qual indirizzo progressista vadano a segno, mentre quelli, come a Trump, non ottengano l’effetto voluto dagli attentatori ma esattamente l’opposto. I dittatori quasi sempre se la cavano a buon mercato al punto da lasciar pensare a qualche complotto propagandistico. Ho imparato a non considerare nemmeno lontanamente la possibilità di mettere a tacere un dittatore, vero o presunto tale, con la tragica scorciatoia degli attentati per due motivi molto semplici: perché non ammetto la violenza, nemmeno contro i dittatori, e perché i dittatori sanno approfittarne a loro uso e consumo e finiscono col rafforzarsi ed avere l’alibi per mettere in ulteriore difficoltà le eventuali opposizioni.