«Il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia» (Papa Francesco, discorso del 04 febbraio 2017 ai partecipanti all’Incontro “Economia di Comunione”, promosso dal Movimento dei Focolari)
Siamo incamminati su questa strada. Per ora “accontentiamoci” di quanto sta succedendo in Germania come attestato dall’articolo di seguito parzialmente citato.
In apparenza è una buona notizia. Continental, impresa tedesca di componenti per auto, ha trovato un partner in cui ricollocare una parte degli oltre 7mila lavoratori in esubero a causa della crisi del settore. Peccato che operai e dirigenti, in particolare addetti all’innovazione, saranno assorbiti da Rheinmetall (di cui fa parte anche Rwm in Sardegna, i cui ordigni sono stati utilizzati, come hanno dimostrato varie inchieste, nella guerra in Yemen), colosso nazionale della Difesa, in pieno boom a causa del conflitto in Ucraina. Bank of America, in un recente rapporto, definisce la compagnia – insieme alla britannica Babcock – la più “promettente”, con un beneficio operativo dodici volte più alto della media del settore. Per quest’anno, l’azienda con sede a Dusseldorf prevede di incrementare il proprio giro d’affari del 40 per cento rispetto al 2023 quando il fatturato era stato di 7,2 miliardi di euro. Soldi provenienti, in parte, dal fondo speciale da 100 miliardi di euro istituito dal governo tedesco nel 2022 per rimodernare l’esercito per adeguarlo al «cambiamento d’era», per parafrasare il cancelliere Olaf Scholz. «Dobbiamo essere preparati per la guerra», non si stanca di ripetere il ministro della Difesa, Boris Pistorius. Rheinmetall, dunque, si prepara a una fase di boom: nel 2023, le richieste hanno toccato il picco di 38,3 miliardi, il 44 per cento in più nel giro di dodici mesi. Per portare avanti l’espansione, il colosso si è messo alla ricerca di nuovo personale. Si parla di un aumento del 10 per cento dei 30mila addetti, il maggior piano di assunzioni dalla fine della Guerra fredda. (dal quotidiano “Avvenire” – Lucia Capuzzi)
Economia di guerra, fondata sulle armi! Non sorprendiamoci quindi se le guerre non finiscono mai, sono un tormentone senza soluzione di continuità, tuttalpiù si può sperare in qualche pausa che prelude ad una ripresa ancor più forte delle ostilità. È la visione tragica ma realistica delle sorti del mondo. Ne siamo tutti più o meno responsabili: dalla ipocrita protervia dei governanti all’omertoso menefreghismo dei semplici cittadini.
La diplomazia è ridotta a vuoto rituale, che costituisce purtroppo un semplice rammendo rispetto agli sbraghi continuamenti procurati al nostro lussuoso ma sempre più sbrindellato abito funerario.
Non mi resta che rifugiarmi nell’insegnamento etico di mio padre, il quale ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?».
Di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicosi. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre.
Mio padre peraltro era in ottima compagnia e in perfetta sintonia con papa Francesco che a Redipuglia pronunciò le parole che riporto di seguito.
Qui e nell’altro cimitero ci sono tante vittime. Oggi noi le ricordiamo. C’è il pianto, c’è il lutto, c’è il dolore. E da qui ricordiamo le vittime di tutte le guerre. Anche oggi le vittime sono tante… Come è possibile questo? É possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante! E questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi, hanno scritto nel cuore: “A me che importa?”.
É proprio dei saggi riconoscere gli errori, provarne dolore, pentirsi, chiedere perdono e piangere. Con quel “A me che importa?” che hanno nel cuore gli affaristi della guerra, forse guadagnano tanto, ma il loro cuore corrotto ha perso la capacità di piangere. Caino non ha pianto. Non ha potuto piangere. L’ombra di Caino ci ricopre oggi qui, in questo cimitero. Si vede qui. Si vede nella storia che va dal 1914 fino ai nostri giorni. E si vede anche nei nostri giorni.
Con cuore di figlio, di fratello, di padre, chiedo a tutti voi e per tutti noi la conversione del cuore: passare da “A me che importa?”, al pianto. Per tutti i caduti della “inutile strage”, per tutte le vittime della follia della guerra, in ogni tempo. Il pianto. Fratelli, l’umanità ha bisogno di piangere, e questa è l’ora del pianto.
Mio padre e il Papa. E i politici? Come diceva spesso Giorgio La Pira, oggi gli unici realisti della politica sono coloro che credono nella pace; drammaticamente illusi sono coloro che credono di risolvere con i vecchi strumenti della violenza e della guerra gli inediti problemi dei nostri tempi.
Mi sono ripromesso di operare le mie scelte politiche in base al criterio della “pace”: ho recentemente votato in questo senso e continuerò a farlo a costo di astenermi o di esprimere voti apparentemente inutili o ininfluenti. Un principio radicale che rifiuta ogni e qualsiasi eccezione. Una irrinunciabile opzione etica che viene prima delle ricostruzioni storiche, delle analisi socio-culturali e dei ragionamenti politici.
A Marco Tarquinio, parlamentare europeo di fresca nomina, è stato chiesto di definire l’Europa in una parola. La risposta è stata “pace”. “L’Europa è pace o non è niente”. Mi permetto di essere pienamente d’accordo e di augurargli di rimanere fedele a questa radicale impostazione.