Il giorno di Natale si presta ad una provocazione in stile mariano: Dio ha riservato un’attenzione speciale a Maria e con essa a tutte le donne. Niente a che vedere con la nostra attenzione altalenante fra l’indifferenza di base e l’isteria di qualche momento.
In questo periodo è scoppiata la pietà. Forse si tratta di bugie pietose che fanno le piaghe sociali puzzolenti: un bailamme di lacrime coccodrillesche, di grilloparlantesche proposte risolutive, di buonismi improvvisati, di scienziati logorroici e di politici dalla coda di paglia. Aspettarsi qualcosa di positivo da una simile confusione è piuttosto ingenuo e problematico. Mi riferisco al clima conseguente all’ennesimo femminicidio messo sotto la lente di ingrandimento più dal cinismo mediatico che dall’indignazione popolare. Ne volete una prova?
Dopo il processo, se colpevole e condannata, la madre deve finire in carcere; ma l’esecuzione è rinviata obbligatoriamente se la donna è incinta o mamma di un bimbo di età inferiore a un anno (art. 146 cod. penale).
Ora la novità annunciata sarebbe che il rinvio dell’esecuzione non sarebbe più obbligatorio, ma facoltativo; vale a dire che una donna incinta o con in braccio il bimbo di pochi mesi se lo potrebbe trovar chiuso in galera con sé (in custodia attenuata ma sempre galera), se così dicesse il giudice di sorveglianza.
Leggo quello che hanno scritto gli psicologi, i pediatri, gli scienziati della prima infanzia, su ciò che si deposita nel profondo dell’essere nei giorni d’aurora della vita, nel bene e nel male, e rabbrividisco. Sì, ci sono alcune carceri “a custodia attenuata”; ci sono a volte delle sezioni interne ai bracci femminili che fungono da “nido”. Ma le cronache ci avvertono che non è scongiurata la disperazione, se una madre nel nido a Rebibbia – era il 2018, ricordate? – gettò i suoi due figli dalle scale a morire piuttosto che vivere reclusi tra i reclusi. E chissà se sappiamo qualcosa dei disturbi che accompagnano le disperazioni estreme; perché per chi ha un figlio non c’è maggior dolore che il dolore del figlio. I torturatori lo sanno bene.
Che una sorta di tortura legale dovesse cessare, anziché essere così rilanciata, l’avevano promessa tutti i ministri della Giustizia. Ricordo quando Clemente Mastella (2007) venne al convegno “Perché nessun bambino varchi più la soglia del carcere”; quando Angelino Alfano (2009) dichiarò che «un bambino non può stare in cella»; quando Paola Severino (2013) disse che «in un Paese moderno è necessario offrire ai bambini, figli di detenute, un luogo dignitoso di crescita che non ne faccia dei reclusi senza esserlo»; quando Annamaria Cancellieri (2014) garantì: «Stiamo lavorando perché vogliamo far sì che non ci siano mai più bambini in carcere»; quando Andrea Orlando promise che «entro la fine dell’anno nessun bambino sarà più detenuto. Sarà la fine di questa vergogna contro il senso di umanità».
Oggi apprendiamo che questa vergogna contro il senso di umanità sarà inasprita per la nostra sicurezza. Sicuri, ma sì, sicuri della vergogna. (dal quotidiano “Avvenire” – Giuseppe Anzani)
La suddetta cinica novità legislativa è passata sotto silenzio nel frastuono politico e culturale di questi strani tempi. Quanto doppiopesismo nelle nostre discussioni pseudo-sociali! Un caso eclatante di violenza dovrebbe indignare e accendere i riflettori su tutto il clima di violenza che pervade la nostra società: purtroppo tutto si tiene e niente è lasciato al caso. Invece su certi tragici episodi scateniamo l’inferno, dimenticando che l’inferno è a portata di mano, è in agguato nella porta accanto e anche più che mai nei posti “maledetti” come le carceri.
Se non abbiamo il coraggio di aprire lo sguardo, rimaniamo vittime di una sorta di strabismo pietistico. Giulia Cecchettin è vittima di una società che semina vittime sulle proprie strade e di cui siamo tutti osservatori troppo spesso distratti, indifferenti e disimpegnati.
Ricordo che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissja fär? Lasär lì ‘d tirär al fiè?». Lo diceva forse anche per mettere fine ai pietismi di maniera che non servono a nulla e vanno molto di moda.
Dobbiamo ripartire daccapo mettendo il rispetto per la persona prima di tutto e interrogandoci su quanto singolarmente possiamo fare, a livello di denuncia, ma anche e soprattutto a livello di impegno concreto. Qualcuno penserà che i casi drammatici non sono tutti uguali. É vero, ma è altrettanto vero che tutti hanno diritto di essere attenzionati e considerati.
Di mia madre non sono riuscito a capire come facesse ad interessarsi ai problemi di tutti e ad intervenire in soccorso di tutti quanti erano alla sua potenziale portata. Ho trovato una risposta poetica: aveva un cuore grande, fatto a cellette come un alveare, un posticino preciso e deciso per ognuno, senza interferenze, senza assurde graduatorie, con il massimo dell’attenzione possibile per tutti.
Si tratta di una lezione valida: se non allarghiamo il cuore e non lo strutturiamo a cellette, non ci saltiamo fuori. Possiamo anche piangere, disperarci, protestare, gridare, inveire, ma la situazione non cambierà. Il discorso vale sul piano personale, ma anche dal punto di vista sociale.