Secondo il vocabolario Treccani per diplomazia si intende l’arte di trattare, per conto dello Stato, affari di politica internazionale. Più concretamente, l’insieme dei procedimenti attraverso i quali uno Stato mantiene le normali relazioni con altri soggetti di diritto internazionale (Stati esteri e altri enti aventi personalità internazionale), al fine di attenuare e risolvere eventuali contrasti di interessi e di favorire la reciproca collaborazione per il soddisfacimento di comuni bisogni; si distingue talvolta fra diplomazia segreta, quella tradizionale, e diplomazia aperta che, propugnata soprattutto dagli Stati Uniti d’America a partire dagli anni della prima guerra mondiale, è caratterizzata dalla tendenza a informare, entro certi limiti, la pubblica opinione di trattative e orientamenti di politica estera.
Ebbene, il presidente Usa Joe Biden si apprestava ad un viaggio diplomatico in Medio Oriente, intendendo incontrare il premier israeliano Netanyahu, il leader palestinese Abu Mazen, il re di Giordania e il presidente egiziano. Gli hanno messo tra i piedi la strage all’ospedale di Gaza City con centinaia di morti, uno dei peggiori massacri della guerra che rischia di infiammare ancora di più il conflitto. L’incontro tra Biden e i tre esponenti del mondo arabo più ragionevoli e moderati è naturalmente saltato.
Hamas ha subito accusato Israele di aver colpito l’Al-Ahli Arabi Baptist Hospital causando tra i 200 e i 500 morti. L’esercito da parte sua ha negato ogni responsabilità e addossato la responsabilità dell’esplosione al lancio fallito di un razzo della Jihad islamica: “L’ospedale non era un edificio sensibile e non era un nostro obiettivo”. Ma la reazione del mondo palestinese e arabo è stata veemente: il presidente Abu Mazen ha cancellato l’incontro previsto ad Amman con Joe Biden e indetto tre giorni di lutto nazionale in Cisgiordania, mentre l’Olp ha fatto appello alla comunità internazionale chiedendo di “mettere fine a questo massacro”. «Sono indignato e profondamente rattristato per l’esplosione nell’ospedale Al Ahli Arab di Gaza e dalla terribile perdita di vite umane che ne è derivata». Così in un comunicato, pubblicato sul sito della Casa Bianca, il presidente americano, Joe Biden. «Subito dopo aver appreso questa notizia, ho parlato con il re Abdullah II di Giordania e con il primo ministro israeliano Netanyahu e ho incaricato la mia squadra di sicurezza nazionale di continuare a raccogliere informazioni su ciò che è accaduto esattamente – prosegue il presidente – Gli Stati Uniti sono inequivocabilmente a favore della protezione della vita civile durante il conflitto e piangiamo i pazienti, il personale medico e gli altri innocenti uccisi o feriti in questa tragedia». (dal quotidiano “La stampa”)
A prescindere dalla responsabilità di questo terribile atto bellico (probabilmente non si conosceranno mai gli autori di questa ennesima strage), esso costituisce il fallimento preventivo di ogni e qualsiasi sforzo diplomatico. Qualora l’attacco all’ospedale fosse stato deciso da Israele, significa che questo Stato vuole assolutamente vendicarsi fino in fondo, asfaltare la striscia di Gaza e risolvere una volta per tutte la questione palestinese. Se al contrario la distruzione dell’ospedale fosse iniziativa di Hamas sarebbe un inequivocabile invito al mondo arabo a non prestarsi a qualsiasi tentennamento diplomatico per sostenere fino alle estreme conseguenze, proditoriamente e pretestuosamente, la causa palestinese.
Gli Usa facciano quindi la parte del servo sciocco di Israele trascinando nella commedia tutto l’Occidente, Europa in primis; gli Stati arabi si pieghino alla follia terroristica iraniana senza se e senza ma. In mezzo i palestinesi destinati ad essere carne da macello.
Non c’è spazio per la diplomazia, questa l’inquietante conclusione a cui il conflitto russo-ucraino ci aveva avviato e il conflitto arabo-israeliano ci inchioda. Cosa sarebbe necessario per tornare alla diplomazia, segreta o aperta che sia? Uno scatto americano che prescinda dai pesantissimi e imbarazzantissimi condizionamenti ebraici, uno scatto cinese che prescinda dai pesantissimi tatticismi più antiamericani che filorussi e ancor meno filopalestinesi.
Forse solo il Vaticano può provare questa strada di ritorno alla diplomazia, se non per convinzione degli interlocutori, almeno per loro convenienza. A livello statunitense non vedo uno spessore politico tale da consentire di riprendere seriamente in mano il filo diplomatico; quanto alla Cina non la vedo capace di svolgere fino in fondo il ruolo di prima o seconda potenza mondiale. L’Europa, che potrebbe giocare un ruolo importantissimo, continua a latitare ed a litigare.
Se fossi Joe Biden mi sarei incazzato non poco di fronte a questo imbarazzante e sconvolgente ostacolo posto sul suo cammino pseudo o pre-diplomatico. Abbia il coraggio di dire basta! Capisco come possa essere difficile dirlo oggi ad Israele dopo l’attacco subito, ma non vedo alternativa a convincere lo storico alleato ebreo a scendere a più miti consigli, pena la catastrofe universale.
A meno che Dio non ci metta la sua santa mano e i credenti in Lui, ripuliti da ogni e qualsiasi scoria di clericalismo, integralismo e fanatismo, riescano a convincerlo con la preghiera, il digiuno e tanti piccoli o grandi gesti coraggiosi di pace. Ma di questo ho già scritto e lascio quindi la parola all’autorevole cardinale Matteo Maria Zuppi, che così ci rivolge il suo pressante invito: “Chiediamo assieme pace per Gerusalemme, uniti dalla fame e dalla sete di pace e giustizia, che Gesù ci indica come via di beatitudine. Pace! È quello che chiediamo e che diventa impegno e responsabilità, perché non si chiede pace se nel cuore vi sono sentimenti di odio, di violenza, e non si chiede quello che non vogliamo vivere a partire da noi. Tanti “artigiani di pace” aiuteranno gli attuali, troppo pochi, “architetti” di pace, cioè chi costruisce ponti e non muri, alleanze e non conflitti. Cerchiamo pace, perché non c’è futuro con la violenza e con la spada”.