Roma, schiaffo alla figlia 12enne per le foto osé inviate a un ragazzo: mamma condannata a 1,7 anni. Leggendo questo titolo di un articolo apparso sul Corriere della sera a firma Giulio De Santis sono letteralmente sobbalzato sulla sedia: una madre, che finalmente si assume le proprie responsabilità educative in modo esplicito, viene pesantemente punita dal tribunale. Il sottotitolo chiarisce, o meglio complica il fatto: La madre è stata ritenuta responsabile di maltrattamenti in famiglia. La segnalazione inviata ai giudici di piazzale Clodio dai servizi sociali.
Allore c’era anche dell’altro? Proseguo la lettura. Dà un ceffone alla figlia di 12 anni, dopo aver scoperto che aveva mandato scatti sexy su Instagram a uno sconosciuto. Schiaffo che provocò alla ragazzina un graffio sul mento, con una leggera perdita di sangue. Lei B. C., 40 anni, è stata condannata ieri a un anno e sette mesi di reclusione con l’accusa di maltrattamenti in famiglia. La sentenza è stata pronunciata dai magistrati del collegio della prima sezione penale del Tribunale presieduti da Alfonso Sabella. I giudici hanno subordinato la sospensione della pena a un percorso di recupero da parte della donna, che dovrebbe forse iniziare nei prossimi mesi. Il pubblico ministero Eugenio Albamonte, al termine della requisitoria, aveva chiesto una condanna più esemplare nei confronti della madre violenta: aveva sollecitato i giudici a condannarla a ben tre anni di carcere.
Incuriosito vado avanti nella lettura. A determinare la diversa impostazione sulla ricostruzione del rapporto tra la donna e la dodicenne e la scelta del tribunale rispetto alle richieste della Procura, con conseguenze sulla determinazione della pena, è il periodo in cui si sarebbero verificati i maltrattamenti. Che, secondo gli inquirenti, sarebbero cominciati nel 2012, quando, durante un controllo dei servizi sociali, la casa, dove in quell’anno vivevano l’imputata e Giorgia, altri due fratelli più piccoli e la nonna (di recente scomparsa), viene trovata in condizioni di caos. Disordine di cui, secondo l’imputata, sarebbe stata responsabile la ragazzina perché non l’avrebbe aiutata nella gestione delle faccende domestiche.
A monte c’era quindi una situazione famigliare difficile, che però non è stata considerata né penalmente né umanamente e socialmente. I giudici invece hanno ritenuto che i maltrattamenti siano iniziati dal giorno in cui la madre aveva dato lo schiaffo alla figlia, un fatto che è avvenuto nel 2016. «Ma davvero è possibile giudicare maltrattamento uno schiaffo dato alla figlia perché invia foto osé a uno sconosciuto?» si è domandato, durante l’arringa, il difensore dell’imputata, chiedendo l’assoluzione dell’assistita. Oltre all’episodio del ceffone, alla madre è contestato il peso psicologico addossato a Giorgia sulla necessità di occuparsi dei fratellini e della nonna, visto che l’imputata trascorreva la maggior parte delle giornate lontana da casa, al lavoro. Sia la Procura che il tribunale hanno ritenuto che i maltrattamenti siano terminati nel 2019 con l’apertura dell’inchiesta. Indagini che sono state avviate in seguito a una segnalazione inviata a piazzale Clodio dagli esperti dei servizi sociali. Va precisato che l’imputata, non avendo mai potuto fare affidamento sul padre dei figli, ha cresciuto i tre ragazzi da sola, costretta ad adattarsi a ogni tipo di attività lavorativa.
In conclusione quale è stato il fatto che ha portato alla condanna? Era il febbraio del 2016, quando la madre – secondo l’accusa – ha preso il cellulare della figlia e controllato il profilo Instagram scoprendo che ha inviato numerose foto in pose sexy a un ragazzo. Un giovane mai individuato la cui età era di 19 anni. La donna venne sopraffatta dalla rabbia. Prima rimproverò la figlia dicendo che certe cose non le doveva fare, poi le mollò uno schiaffo, colpendola sulla bocca così forte da provocarle un graffio e qualche goccia di sangue. E la ragazzina si mise a piangere. L’episodio, insieme ai richiami della madre fatti di parole umilianti per il mancato aiuto nelle faccende domestiche, Giorgia lo racconterà nel 2019 agli assistenti dei servizi sociali. Da qui, l’inchiesta e il rinvio a giudizio. Chi sia invece la persona che ha ricevuto le immagini è rimasto un mistero.
Se mi è consentito di criticare una sentenza, quanto meno nel suo dispositivo, penso che forse si stia esagerando: da una parte il governo vuole mandare in galera i genitori che non mandano a scuola i figli facendo loro mancare un importante supporto educativo, dall’altra i giudici condannano i genitori che eccedono nell’educazione adottando le maniere antiche.
Resto nell’ambito della mia famiglia. Come ho già avuto modo di scrivere, mia sorella, acuta ed appassionata osservatrice dei problemi sociali, nonché politicamente impegnata a cercare, umilmente ma “testardamente”, di affrontarli, di fronte ai comportamenti strani, drammatici al limite della tragedia, degli adolescenti era solita porsi un inquietante e provocatorio interrogativo: «Dove sono i genitori di questi ragazzi? Possibile che non si accorgano mai del vulcano che ribolle sotto la imperturbabile crosta della loro vita famigliare?». Di fronte ai clamorosi fatti di devianza minorile, andava subito alla fonte, vale a dire ai genitori ed alle famiglie: dove sono, si chiedeva, cosa fanno, possibile che non si accorgano di niente?
Quindi mia sorella avrebbe approvato il comportamento della madre in oggetto e forse non si sarebbe lasciata commuovere più di tanto dal sangue sgorgante dalla bocca di quella ragazzina un po’ troppo trasgressiva colpita dal ceffone materno.
Poi arriva mio padre che affermava come non avrebbe osato alzare le mani sui figli nemmeno se avessero incendiato la casa: della serie per educare non servono maniere forti, ma parole e soprattutto esempi convincenti.
E allora come la mettiamo? Il mestiere di genitore, che purtroppo non ho potuto esercitare, è forse il più difficile che esista. Infatti non è un mestiere. Forse è un’arte, dove ci possono stare il ceffone e la carezza, il rimprovero e l’elogio, l’intransigenza e la comprensione.
Per tornare al caso concreto non trovo niente di esagerato nel fatto che quella madre esigesse l’impegno della figlia nelle faccende domestiche. Quando la vita è dura, fin da giovani bisogna imparare a farsene carico. Non c’è servizio sociale che tenga.
Faccio al riguardo un altro salto temporale a livello famigliare. Nel suo difficile e problematico contesto, mia madre divenne, a tutti gli effetti e per tutta la vita, la “rezdóren’na dal bocäl”, in quanto, ancora bambina, era chiamata a svolgere compiti, che, nella loro umiltà e necessità, configuravano un’autentica e prematura donna di casa: la diligenza con cui ripuliva i pitali, con la sabbia in riva ad un ruscello vicino a casa, la diceva lunga sulla capacità di affrontare con dignità e serietà le funzioni che la vita le richiedeva e le avrebbe richiesto. La nonna aveva individuato in lei la sua aiutante in campo, a lei affidava la casa quando era costretta ad allontanarsi per “curare gli affari” (sola ed analfabeta), a lei affidava la cura dei figli più piccoli: cominciò così il suo iter familiare, il suo tirocinio casalingo in una infanzia difficile, tuttavia ricordata con tanta nostalgia, senza recriminazioni di sorta.
Le assistenti sociali dovrebbero abbandonare le loro agende della teoria per rimboccarsi le maniche della pratica. Per i genitori preferisco un eccesso colposo in legittima educazione rispetto ad un permissivismo che rasenta il menefreghismo. Ai giudici chiedo il cuore dell’obiettività nel prendere in considerazione i casi umani, associato alla mente nel rispetto della legge. Ai governanti il compito di quadrare il cerchio…
Chiudo con un episodio della vita di mia sorella, che può rappresentare la problematica sintesi del discorso educativo, che riguarda tutti, nessuno escluso. Da un condominio vicino al nostro arrivavano da parecchio tempo gli insistenti strilli di una bambina: mia sorella da sempre non riusciva a sopportare il pianto dei bambini, non per il fastidio ma per la pena che le provocava. In quel caso poi le urla di quella bambina, che ogni tanto faceva capolino sul balcone prospiciente la strada, preoccupavano ed insospettivano per la loro clamorosa continuità e davano l’impressione di non essere frutto dei soliti capricci infantili. Lucia fece una forzatura. Non era più investita di cariche o funzioni pubbliche ma, spacciandosi da operatrice sociale del Comune, suonò il campanello dell’abitazione della famiglia in questione. Chiese conto al padre, sceso in strada per conferire con lei, di questi continui pianti disperati della bambina. Senza dare giustificazioni plausibili, l’uomo reagì e attaccò, minacciando di chiamare i carabinieri. A quel punto Lucia, ancor più indispettita e insospettita dalla reazione assurda e spropositata dell’uomo, rispose per le rime: «Se la mette su questo piano, i carabinieri li chiamo io e poi vediamo cosa succede…». E si allontanò. I carabinieri non li chiamò nessuno, anche perché le lamentazioni della piccola diminuirono, quasi sparirono. A pensar male… Lucia si preoccupò comunque di coprire quel piccolo abuso di potere telefonando all’assessore competente, sua amica, cui raccontò l’accaduto invitandola, se del caso, a fare intervenire i servizi sociali. Non ce ne fu bisogno.