Qualche giorno fa, in sede di commento al tragico fatto di sangue che ha visto soccombere una giovane donna incinta alla violenza del suo infido compagno, ho richiamato una sorta di apparente contrasto tra fede e scienza, emergente dal dialogo tra l’allora papa Paolo VI e il noto criminologo e psichiatra Vittorino Andreoli. Risulta che il papa al termine di tale incontro abbia cortesemente accompagnato l’illustre professore all’uscita, suggellando in modo inquietante lo scambio di opinioni che avevano avuto: «Si ricordi professore che il diavolo esiste!».
In questi giorni Vittorino Andreoli ha rilasciato un’intervista a Flavia Amabile del quotidiano “La stampa”, efficacemente titolata, che riporta in sintesi il pensiero dello scienziato: “La morte è diventata banale e l’amore è una forma di consumo”. Lo psichiatra, sull’omicidio di Giulia Tramontano, ha aggiunto: «La società deve insegnare ad affrontare le emozioni. Bisogna ripartire dall’educazione: si preferisce riempirci di poliziotti invece che investire nella scuola».
Appare, in un certo senso, come la risposta laica all’affermazione di Paolo VI, la versione sociologica della spietata analisi religiosa dell’ex papa. Mi sento di condividerle pienamente entrambe: penso siano le due facce della stessa medaglia. Banalizzare la morte e consumare l’amore non è forse la moderna tentazione diabolica che attacca le nostre esistenze? Illudersi di affrontare le emozioni con la repressione poliziesca anziché con la paziente educazione delle coscienze non è forse la peggiore delle risposte al dilagante male che inonda la vita individuale e collettiva?
L’amore è, per credenti e non credenti, il motore della nostra esistenza, ma, se lo fondiamo senza oliarlo, diventa la nostra disfatta. Se consideriamo la morte un ostacolo da superare sbrigativamente, buttiamo via la vita. L’amore è vita, ma, se viene sprecato, ci porta alla morte.
Sono grato al professor Andreoli perché ci aiuta ad uscire dal tunnel della sociologia spicciola per imboccare la strada della più profonda filosofia.
Se seguo il filo conduttore dei ricordi, scopro come fosse sempre presente in mio padre l’intento di andare “oltre” la realtà emergente per creare qualche risposta ai perché dell’esistenza. Una volta, conversando con lui, andammo proprio a finire su cosa intendesse per filosofia e mi stupì la risposta per chiarezza e semplicità. Disse: “Il filosofo è colui che vedendo qualcosa si chiede: è così o sono io che la vedo così?”. Interroghiamoci dunque di fronte a tanta violenza, a tanto brutale egoismo.
Questo sconvolgente fatto di cronaca nera non può solo scatenare impulsi punitivi, quasi a voler rimuovere dalle nostre coscienze responsabilità individuali e collettive, ma deve spingerci a ritrovare il filo della matassa, che più ingarbugliata di così non potrebbe essere. Non si tratta di dare la colpa al diavolo o alla società diabolica, ma di guardare alla vita che è in noi come una ricerca di relazioni positive. Come scrive padre Raniero Cantalamessa, la felicità e l’infelicità sulla terra dipendono in larga misura dalla qualità delle nostre relazioni. Ciò che rende bella, libera e gratificante una relazione è l’amore nelle sue diverse espressioni. Quello che avvelena una relazione è il volere dominare l’altro/a, possederlo/a, strumentalizzarlo/a, anziché accoglierlo e donarsi ad esso/a.
Penso che questo possa essere il miglior modo per ripartire, come sostiene opportunamente Vittorino Andreoli, dall’educazione e per riempire di contenuti quella scuola a cui tutti dovremmo essere iscritti e che non dovrebbe terminare mai.