Questioni di sopragoverno

Un tempo lo chiamavano sottogoverno, vale a dire quella politica di consolidamento del potere svolta in taluni casi dai partiti al governo (dello stato, delle regioni, degli organismi periferici) con l’assegnazione ai propri elettori di posti chiave nell’amministrazione centrale e nei vari enti economici e finanziari, indipendentemente dalle loro capacità e quindi a danno della collettività.

Oggi considerata la debolezza della politica lo chiamerei “sopragoverno”: non a caso i partiti di maggioranza hanno faticato parecchio a trovare la quadra nella recente tornata di nomine diventata un vero e proprio tormentone infinito. La Lega ha molto appetito e non si accontenta di qualche piattino seppure prelibato. Vuoi vedere che, mentre tutti chiacchierano di massimi sistemi, il governo rischia di scricchiolare su prosaiche questioni di pura spartizione del potere?

Si dirà che è sempre stato così ed in parte è verissimo. C’è però una differenza molto importante: in passato volenti o nolenti questi signori del sottogoverno prima o poi dovevano rispondere alla politica anche con favori più o meno leciti. Mi pare che oggi invece il discorso si sia capovolto: sono i politici che rispondono a questi potenti manager pietendo da essi favori più o meno leciti. Cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia? In questo caso cambia eccome. La tecnocrazia imperversa a scapito della democrazia, alimentando il senso di sfiducia dei cittadini verso la politica spogliata delle sue prerogative prima che della propria capacità di intervento. La politica rischia cioè di essere imbrigliata fra i poteri della conservazione burocratica e quelli del governo tecnocratico.

Il grande Enrico Mattei, un manager di stato a tutto tondo, diceva in modo spregiudicato: “Uso i partiti politici come un taxi: salgo, mi faccio portare dove voglio, pago la corsa e scendo”. Purtroppo la politica più sporca, quella invischiata nei poteri economici forti nazionali ed internazionali, alleata con la delinquenza organizzata, si vendicò di lui. Non vedo all’orizzonte nessun erede di Mattei: i tecnocrati non sono politicizzati come lo era lui, che sapeva comunque mettere gli interessi della collettività prima di tutto il resto, ma nella loro neutralità democratica rendono intoccabile il sistema capitalistico o meglio lo adattano alla sua mera sopravvivenza.

La globalizzazione dei mercati, la finanziarizzazione dell’economia, la debolezza della politica riciclano il sistema e lo fanno guidare da personaggi che non rispondono a nessuno se non alle proprie capacità. I partiti si illudono di contare qualcosa: lo riescono a fare soltanto a livello mediatico spacciando in continuazione specchietti per le allodole. Poi quando arrivano al dunque per spartirsi la torta virtuale, la prendono in faccia, si limitano a leccarsi i baffi e litigano persino picchiando i pugni sul tavolo dove non c’è più niente da accaparrare.

Giorgia Meloni fa la parte del playmaker, del giocatore che costituisce il punto di riferimento del gioco di tutta la squadra, e al quale è affidato il compito di scegliere gli schemi offensivi e difensivi più adatti alla conduzione della partita: ma non c’è la squadra e non c’è partita. Matteo Salvini fa la parte del battitore libero, tentando disperatamente di collocarsi in una posizione autonoma rispetto alla linea del governo: ma non c’è la linea e non c’è il governo. Silvio Berlusconi, malattie a parte, si è già servito, ha già mangiato a sufficienza, desidererebbe solo il dolce a conclusione del suo pasto luculliano: ma non c’è più trippa per i gatti berlusconiani e bisogna accontentarsi di vivere coi quattro gatti di risulta.

I litigi tra di loro non fanno rabbia, fanno compassione. Finirà la contingenza spartitoria, tutti penseranno di avere vinto, i cittadini non avranno capito nulla (perché non c’è nulla da capire) e il sistema andrà avanti fino alla prossima pandemia e/o guerra e/o emergenza. Allora capiremo che la politica serve, che i tecnocrati fanno i loro giochi, che la povertà aumenta. Probabilmente sarà troppo tardi, perché in queste cose è sempre troppo tardi.