“Tùtt i tròp jen tròp”. Mi sta benissimo l’entusiasmo per il calcio, ma quando si passa il segno, non è né bello né accettabile. Mi riferisco ai festeggiamenti esagerati per la conquista dello scudetto da parte della squadra napoletana.
Non so se i tifosi abbiano capito che è stato loro scippato questo successo, trasformato in una indegna sarabanda mediatica e in una sorta di celebrazione autoassolutoria di un mondo che fa acqua da tutte le parti. Si è trattato dell’occasione per riciclare e rilanciare il penoso castello costruito intorno allo sport più bello e spettacolare del mondo, ridotto a cloaca dei peccati calcistici.
Non mi sono stupito delle esagerazioni della gente, anche se l’evasione di massa ha trovato una folle esplosione, ciò che mi ha irritato è stata l’enfasi e la retorica con cui i media hanno seguito questo evento: ho ascoltato cronache e commenti disgustosi, cito per tutte la vomitevole performance di Francesco Repice, un cronista Rai che va per la maggiore, che andrebbe licenziato su due piedi per giusta causa d’insufficienza culturale. Sono riusciti a rendere antipatica Napoli ed i napoletani: è tutto dire.
Che peccato! Non lamentiamoci poi se il pubblico si scatena in comportamenti assurdi, violenti e razzisti: i media fanno assist perfetti al peggior tifo, salvo poi meravigliarsi ipocritamente. Posso essere disfattista? Rimpiango l’austero clima calcistico imposto dalla pandemia, il lock down, gli stadi vuoti, anche se forse sarebbe il caso di ripristinare il lock down solo per gli operatori mediatici, che definirei “mangia pane a tradimento”, i coccodrilli del pallone.
Lasciamo perdere il gonfiore dei bilanci truccati, le scorrettezze finanziarie, le paradossali ingiustizie: come si può cantare vittoria? Il Napoli sarebbe la dimostrazione che si può fare calcio con i conti in ordine!? Ma fatemi il piacere…Ci vuole un bel po’ di pelo sullo stomaco!
Vale la pena riprendere le ingenue esclamazioni di mia madre di fronte alla sarabanda delle persone che ruotano attorno al calcio: “Co’ farisla tutta ch’la génta lì s’a ne gh’ fìss miga al balón?”. Non avrebbero più pane per i loro denti, il castello crollerebbe rovinosamente ed in effetti qualche (?) cedimento ha cominciato a verificarsi.
Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose.
Io sono fermo lì e me ne vanto. Il resto viene dal maligno pallonaro. Si badi bene che mio padre non era un soggetto che seguiva la partita in modo distaccato; era molto coinvolto, amava il calcio, (lo considerava lo sport più bello del mondo perché semplice, giocabile da tutti, per tutti molto comprensibile, affascinante e trascinante nella sua essenzialità, spettacolare nella sua variabilità ed imprevedibilità), sentiva fortemente l’attaccamento alla squadra della città di Parma (soprattutto nelle partite stracittadine con la Reggiana soffriva fino in fondo) e non sottovalutava il fenomeno “calcio” (fotball come amava definirlo in una sorta di inglese parmigianizzato). Ebbene, evviva il fotball, abbasso il calcio.