La maternità non è un mutuo

La “gravidanza solidale e altruistica” va resa possibile in Italia, come nel Regno Unito, in Canada e in Grecia. Con accorgimenti chiari: la donna che “in modo autonomo e volontario decide di ospitare nel proprio utero un embrione sviluppato attraverso le tecniche di fecondazione in vitro” deve avere almeno 42 anni, essere già mamma e avere un reddito che la renda indipendente, quindi non trovarsi in stato di bisogno.

Si tratta della proposta dell’Associazione Luca Coscioni: la maternità surrogata diventerebbe altruistica (così è stata immediatamente definita dai media). Posso capire lo sforzo di rendere eticamente accettabile una pratica piuttosto raggelante, rispetto i proponenti per il loro impegno su tante battaglie importanti, ne riconosco la serietà e il coraggio. Tuttavia mi sembra che il limite invalicabile venga non tanto convintamente superato, ma abilmente aggirato.

Difficile al limite dell’impossibile riscattare l’egoismo di chi vuol essere madre o padre a tutti i costi con l’altruismo di chi è disposto a offrire, seppure senza alcun condizionamento psicologico o economico, il proprio utero alla bisogna. La corda è troppo tirata e non può che spezzarsi.

Sono sempre stato e sono tuttora molto aperto sulle problematiche sessuali e riproduttive. Ho sempre rifiutato un approccio dogmatico, preferendo partire evangelicamente dal principio base “dell’amore” per costruire su di esso ogni e qualsiasi impalcatura di carattere civile e religioso. Alle coppie gay arrivo con molta facilità, direi quasi con soddisfazione, all’adozione dei figli da parte di queste coppie arrivo di conseguenza seppure senza soddisfazione, a maggior ragione ammetto la fecondazione eterologa quale contributo della scienza alla maternità e paternità responsabili (anche se mi resta in bocca un retrogusto di meccanico laddove niente dovrebbe esserlo), ma davanti all’utero materno ridotto a oggetto di scambio mi fermo e resto irrimediabilmente sconvolto.

Si tratta comunque di una forzatura pazzesca della natura. È pur vero che di forzature ne abbiamo fatte e ne stiamo facendo parecchie, pagandone amaramente e drammaticamente le conseguenze. Mi pare che si scontrino due atteggiamenti a cui voglio comunque concedere il beneficio della buonafede. Da una parte chi ritiene che a tutto ci debba essere un limite imposto dalla natura e ancor più dalla integrità morale, dall’altra parte chi ritiene che, dal momento che questi limiti possono venire subdolamente aggirati, tanto vale regolamentare la materia per renderla almeno compatibile col vivere civile, lasciando alla coscienza individuale la compatibilità etica.

Il discorso possibilista è stato facilmente (?) adottato in materia di divorzio e di aborto, anche perché i danni derivanti dalla violazione delle regole rigide erano ben più gravi di quelli ascrivibili ad una legislazione “possibilista”. Se arriviamo alla maternità surrogata il discorso non regge più: il danno di ridurre la procreazione a mercato “dell’usato sicuro” è veramente inaccettabile. La teoria del male minore non vale più né per gli individui né per la società.

Credo che anche la coscienza collettiva progressivamente sempre più aperte a certi discorsi, su questo punto giustamente si blocchi, ritenendolo esagerato e improponibile come un vero e proprio salto nel buio. Anche di questo il legislatore dovrà tenere conto non per sottoporre la questione ad un surrettizio referendum, ma per interpretare il pensiero prevalente dei cittadini. È pur vero che il legislatore dovrebbe tracciare una direzione di marcia, ma si deve fermare quando la marcia rischia di essere quanto meno pericolosa se non disastrosa.