Il casto “amplessonio” degli omosessuali

Papa Francesco ha dovuto ribattere la lingua dove il dente cattolico duole: il discorso dell’omosessualità. Riporto di seguito le sue testuali parole pronunciate durante la conferenza stampa tenuta sull’aereo di ritorno dal viaggio in Congo e Sud Sudan.

“Su questo problema ho parlato in due viaggi, prima tornando dal Brasile: se una persona di tendenza omossessuale è credente, cerca Dio, chi sono io per giudicarlo? Questo ho detto in quel viaggio. Secondo, tornando dall’Irlanda, è stato un viaggio un po’ problematico perché quel giorno era uscita la lettera di quel ragazzo… ma lì ho detto chiaramente ai genitori: i figli con questo orientamento hanno diritto di rimanere in casa, non potete cacciarli via di casa. E poi ultimamente ho detto qualcosa, non ricordo bene cosa, nell’intervista alla Associated Press. La criminalizzazione dell’omosessualità è un problema da non lasciar passare. Il calcolo è che, più o meno, cinquanta Paesi, in un modo o in un altro, portano a questa criminalizzazione – mi dicono di più, ma diciamo almeno cinquanta – e anche alcuni di questi – credo siano dieci, hanno la pena di morte (per gli omosessuali n.d.r.) – questo non è giusto, le persone di tendenze omosessuali sono figli di Dio, Dio gli vuole bene, Dio li accompagna. È vero che alcuni sono in questo stato per diverse situazioni non volute, ma condannare una persona così è peccato, criminalizzare le persone di tendenza omosessuale è una ingiustizia. Non sto parlando dei gruppi, ma delle persone. Alcuni dicono: fanno dei gruppi che fanno chiasso, io parlo delle persone, le lobby sono un’altra cosa, sto parlando delle persone. E credo che il Catechismo della Chiesa Cattolica dice: non vanno marginalizzati. Credo che la cosa su questo punto sia chiara”.

Prendo atto con soddisfazione dei notevoli (?) passi avanti compiuti dalla Chiesa cattolica a livello papale: ho l’impressione che il papa, tutto sommato e non solo su questo tema, sia molto più avanti delle gerarchie vaticane, dei sacerdoti e dei laici. È giusto che sia così anche perché il pastore deve indirizzare le pecore e non si deve accontentare di tenerle unite a costo di rendere statico il gregge.

Diceva il cardinale Walter Brandmüller nell’ambito dei lavori sul sinodo della famiglia: «Quanto alle persone omosessuali ritengo sia sempre valido ciò che leggiamo nel catechismo della Chiesa Cattolica: “Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza…Le persone omosessuali sono chiamate alla castità come noi tutti…”. Del resto vale sempre la classica formula: no al peccato, braccia aperte alla persona».  L’atteggiamento era ed è, negli esponenti più tradizionalisti della gerarchia e non solo della gerarchia, ben qualificato (sic!) dai tre termini: disordinata, compassione, castità. Gli omosessuali rappresenterebbero una situazione disordinata e di fronte al disordine sarebbe automatico rimettere le cose (in questo caso i sentimenti) al loro posto. Però i cattolici sono buoni e allora hanno compassione: dal pulpito della loro coscienza in (dis)ordine compatiscono i fratelli e le sorelle che sbagliano. Poi arriva la cambiale in bianco: se vuoi entrare in gioco devi pagare con i soldoni della castità, puoi nutrire un amore solo a mezzo servizio, guardare ma non toccare. Della serie tu sei fuori, ma io ti faccio entrare purché tu non rompa… Su questi presupposti non si può costruire nulla di buono se non un comodo pietismo di cui le persone omosessuali farebbero volentieri a meno.

Allora il papa ha forse fatto un passo avanti rispetto a queste posizioni di retroguardia: ha cioè sdoganato l’omosessualità dal disordine in cui era relegata, con doveroso rispetto e senza paternalistica compassione. Sulla criminalizzazione la denuncia mi sembra automaticamente dovuta: mancherebbe altro che il papa non la condannasse.

Viene concesso rispetto e accoglienza agli omosessuali, senza discriminazione alcuna. Un passo avanti? Certamente sì rispetto ai ritardi storici e culturali accumulati. Certamente no rispetto alle attese di una pastorale inclusiva del mondo omosessuale. In certi negozi è appeso un cartello con su scritto: “Si fa credito solo ai novantenni accompagnati dai genitori”. Non vorrei che d’ora in poi sulle porte delle chiese si apponesse quest’altro cartello: “Si accolgono gli omosessuali casti al par di neve alpina”.

Sì, perché il punto dolente rimane quello della castità prevista dal catechismo.  Il rapporto fra i gay non può chiamarsi matrimonio, al massimo si potrà definire “amplessonio”. Insomma è come mettere un dito in un orecchio. E poi si tratterebbe di un “amplessonio” di puro desiderio, da non consumare, da vivere in modo platonico.

La Chiesa perde il pelo della condanna facile, ma non il vizio del guardare dal buco della serratura delle camere da letto. Se fossi omosessuale coltiverei tranquillamente la mia fede in Dio, ma non consentirei a nessun catechismo di rovistare tra le mie lenzuola. Capisco però la sofferenza di sentirsi obbligati alla castità. Non ha alcun senso e oltre tutto esiste il rischio di confinare i rapporti omosessuali nell’area del vizio.

Diceva il cardinal Martini: «Non è male che due omosessuali abbiano una certa stabilità di rapporto e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili». Troppo bello per essere vero, troppo avanzato per fare il papa. Bergoglio per arrivare fin lì, su questo ed altri problemi, ha molta pappa da mangiare. Accontentiamoci, ma fino ad un certo punto.