Il canto dell’ex gallo

“Se fossi stato il presidente del Consiglio non sarei mai andato a parlare con Zelensky, perché stiamo assistendo alla devastazione del suo Paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Bastava che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto, quindi giudico, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore”.

Con queste parole il presidente di Forza Italia Silvio Berlusconi, a margine del suo voto per le elezioni regionali in Lombardia, ha commentato l’esclusione del presidente del Consiglio Giorgia Meloni dalla cena con i leader di Germania, Francia e Ucraina: Scholz, Macron e Zelensky. La guerra secondo Berlusconi va conclusa con un piano Marshall: “Biden prometta miliardi, non armi. E questo signore cesserà il fuoco”.

Non credo si tratti di una estemporanea dichiarazione assimilabile allo sfogo del nonno che gira per casa in mutande, sputando imbarazzanti verità. Non credo nemmeno che rientri nella comprensibile e finanche “solidarizzabile” insofferenza del nonno, che la sa lunga, verso l’insopportabile presunzione della nipotina, che non sa niente.

Innanzitutto Silvio Berlusconi, in questo caso, non ha detto cazzate. Zelensky ha grosse responsabilità, che non possono essere bellamente nascoste dietro la concessione di un’aprioristica difesa d’ufficio. Gli Usa dovrebbero smetterla di giocare alla guerra per interposta persona e usare il proprio appoggio all’Ucraina non per incallirla in una guerra suicida, ma per avviarla verso una trattativa di pace pur difficile ma imprescindibile. L’Europa anziché gareggiare al proprio interno nell’invio di armi a Zelensky potrebbe tentare una sorta di “ricatto pacifista” nei confronti dell’Ucraina: in Europa sì, ma a condizione che si faccia di tutto per interrompere una spirale in via di tragico consolidamento. Questa la mia libera interpretazione delle imbarazzanti ma interessanti parole in libertà berlusconiane.

Non penso però che il tutto sia solo da considerare come una voce dal sen fuggita o come uno spassionato consiglio al governo italiano ed al suo premier in particolare. Così vorrebbe far credere Forza Italia con un penoso comunicato teso a nascondere la mano dopo avere lanciato il sasso. Lo riporto di seguito perché la dice lunga: «Il sostegno del presidente Berlusconi in favore dell’Ucraina non è mai stato in dubbio. Ha solo espresso la sua preoccupazione per evitare la prosecuzione di un massacro e una conseguente grave escalation della guerra, senza venire mai meno all’adesione di Forza Italia alla maggioranza di governo, alla posizione della Nato, a quella dell’Europa e degli Stati Uniti. Il presidente Berlusconi non ha mai nominato Putin, dal quale ha più volte sottolineato di essere rimasto deluso, ha solo spiegato che nessuno è esente da responsabilità. A dimostrazione di come egli sia preoccupato e desideri un ritorno alla pace che interrompa questa spirale di violenza e di morti, ha auspicato un gigantesco piano Marshall in favore dell’Ucraina e del suo popolo».

L’uscita del cavaliere ha un senso politico o quanto meno tattico? Difficile negarlo per la tempistica scelta (in concomitanza con le elezioni regionali in Lombardia e Lazio), per i toni adottati (tutt’altro che morbidi e concilianti), per l’agitata contingenza che sta vivendo la maggioranza di governo (giornalieri e malcelati contrasti), per lo storico scetticismo espresso da Berlusconi fin dalla nascita di questo governo (ricordiamoci dell’eloquente alzata di sopracciglio al Quirinale dopo la sbracata autocandidatura di Giorgia Meloni).

E allora cosa vuole combinare? È facile scadere nella fantapolitica, ma bisogna considerare che nel comportamento berlusconiano niente è puramente casuale: d’altra parte le sue dichiarazioni lasciano intendere un’attenta calibratura delle parole e non una “sparata” di mera insofferenza antimeloniana, antieuropea, antiamericana, antizelenskyana, antigovernativa, antitutto.

Sono portato a inquadrare questa uscita in una tattica di riavvicinamento tra Forza Italia e Lega, favorita da un certo qual idem sentire in materia di guerra russo-ucraina. All’approccio realistico di Berlusconi fa riscontro quello economicistico di Salvini: di questa guerra non se ne può più, soprattutto non ne possono più gli italiani che sono in stragrande maggioranza ad essa contrari. Ebbene, queste manovre politiche potrebbero mettere il fronte forza-leghista in una posizione di ritrovata assonanza con l’opinione pubblica, allontanandola dalle simpatie verso Fratelli d’Italia e la sua leader, e potrebbero ridimensionare lo strapotere meloniano, facendo balenare persino la possibilità di un certo cannibalismo verso il cosiddetto terzo polo di Renzi e Calenda in cerca di futuro. Non è un caso che Berlusconi nei giorni precedenti la consultazione elettorale lombarda abbia affermato che avrebbe votato volentieri per la Moratti (magari lo avrà fatto e fatto fare), lanciando un messaggio a certi ambienti stanchi di una deriva destrorsa fine a se stessa, che non hanno però ripiegato sulla Moratti, ma probabilmente hanno preferito astenersi.

Siccome però Berlusconi ha sempre interpretato la politica anche e soprattutto pro domo sua, cos’ha da guadagnare in soldoni da queste manovre così opache e complicate? Bisognerebbe fare quattro chiacchiere fuori dai denti con i maggiorenti di Mediaset e dintorni. Non ho questa possibilità. Mi limito a pensare che comunque un recupero di potere politico di Berlusconi non faccia male al suo impero aziendale. Si ritorna sempre lì. Certamente la premiership di Giorgia Meloni non fa molto gioco in tal senso, anzi…

Il risultato elettorale, tutto da approfondire, potrà fornire ulteriori indicazioni al riguardo delle ipotesi suddette. Magari il tutto si rivelerà un mero ballon d’essai. A Berlusconi non resterà che la soddisfazione narcisistica di aver riconquistato la scena senza incassare voti? Ho qualche dubbio. Come minimo si metterà all’ombra dell’astensionismo dilagante, accreditandoselo come qualunquismo filo-berlusconiano, puntando cioè su un ritorno di fiamma con la gente che non l’ha ancora dimenticato. Morale della favola: la politica sta raschiando il fondo del peggior barile della democrazia e l’astensionismo, che ha raggiunto livelli clamorosi (si pensi che a Roma due abitanti su tre non sono andati a votare), lo sta a dimostrare.