I tromboni che coprono i suoni armonici

Un conto è esprimere soddisfazione per l’arresto del boss mafioso (l’ultimo?) Matteo Messina Denaro, un conto è cavalcare trionfalisticamente l’evento come sta facendo gran parte della politica ed il governo. Si è scatenata immediatamente la corsa a mettere il cappello sopra questo fatto, dimenticando bellamente che questo arresto arrivo con appena trent’anni di ritardo.

Meglio tardi che mai, ma questo ritardo è inquietante e impone parecchie riflessioni sul fenomeno mafioso e i suoi legami con la politica, la società e le istituzioni. Se non esistessero questi legami, la latitanza di questo personaggio sarebbe durata molto meno.

Come si legge in una nota del Quirinale, “il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha telefonato questa mattina al Ministro dell’Interno e al Comandante dell’Arma dei Carabinieri per esprimere le sue congratulazioni per l’arresto di Matteo Messina Denaro, realizzato in stretto raccordo con la Magistratura”. Poche appropriate e sobrie parole per cogliere il vero significato “istituzionale” dell’evento, che in un certo senso potrebbe e dovrebbe rappresentare la vera novità da cogliere e coltivare. Il resto mi è sembrato fuffa retorica, strumentale e fastidiosa, mirante a buttare fumo negli occhi.

La lotta alla mafia è il nostro problema e lo rimane anche dopo questo arresto eccellente, che non cancella il fenomeno mafioso nel frattempo evoluto verso forme di affarismo delinquenziale sempre più sofisticate ed allargate. Se si è girata una pagina, non significa che il quaderno sia finito.

Non credo che questo arresto possa suonare a consolazione per i famigliari delle vittime di mafia così come non credo che segni un distacco significativo della società dal fenomeno mafioso. Una giustizia che arriva con trent’anni di ritardo è più una beffa che una rassicurazione. Una latitanza durata trent’anni testimonia di una persistente area di omertà serpeggiante a tutti i livelli.

Il ministro degli Interni impegnato all’estero ha espresso il proprio rammarico per non poter partecipare alla “festa” (ma quale festa? non ricordo se abbia usato proprio questo termine, ma il concetto era questo) ed ha aggiunto che “ci vuole tempo ma la giustizia arriva” (una quasi barzelletta…).

“È una giornata storica, un giorno di festa per le persone per bene, per le famiglie delle vittime della mafia, perché il sacrificio di tanti eroi non era vano”. Lo ha detto la premier Giorgia Meloni ai cronisti a Palazzo di giustizia dopo l’incontro col procuratore capo di Palermo. “Mi piace immaginare che questo possa essere il giorno nel quale viene celebrato il lavoro degli uomini e delle donne che hanno portato avanti la guerra contro la mafia. Ed è una proposta che farò”. Forse si sta esagerando, ma ormai purtroppo tutto si muove in chiave mediatica e secondo logiche di mera strumentalizzazione politica.

Sinceramente non riesco ad unirmi a questo stentoreo coro di osannanti, preferisco pensare silenziosamente e coscienziosamente a tutti coloro che hanno dato la vita e che continuano a rischiarla, a quanti fanno silenziosamente il proprio dovere. È così che si combatte la mafia, non con le trombonate retoriche del momento.

Se da scuola portavo a casa un buon voto, mio padre, di mestiere imbianchino, era soddisfatto, ma non mi faceva tanti complimenti, anzi mi gelava dicendo: «T’è fat al tò dovér, né pu né meno che al tò dovér…Se a mi a m’ vén bén la pituräda ‘d ‘na cambra, ti co’ m’ dit? T’è fât al tò mester…».

Richard Strauss consigliava al buon direttore d’orchestra di non guardare i tromboni per non incoraggiarli. Io mi permetto di parafrasarlo pregando i buoni cittadini di non ascoltare i tromboni per non rovinarsi le orecchie.