Preti in cerca di caritatevoli guai

“Fa più rumore un albero che cade che un intera foresta che cresce”: è il noto aforismo di Laozi, chiamato anche in molti altri modi (come Lao Tzu, Lao Tse, Lao Tze, Lao Tzi e altro ancora), figura discussa della tradizione culturale e religiosa cinese, di cui non è dato sapere né l’esistenza certa, né il periodo esatto in cui avrebbe realmente vissuto. Oggi potremmo aggiungere che cadono troppi alberi con un frastuono assordante, mentre la foresta in crescita è piuttosto scarsa anche perché rischia di venire ulteriormente silenziata.

È il caso di don Mattia Ferrari di Modena: è stata chiesta dalla procura l’archiviazione dell’inchiesta sulle minacce al cappellano della Mediterranea saving humans, arrivate da account twitter legati alla mafia libica. Così scrive sul quotidiano Avvenire Daniela Fassini, al cui pezzo mi rifaccio con ampie citazioni.

Cosa dice la procura di Modena per giustificare l’archiviazione del caso? Nega che le minacce ricevute arrivino dalla mafia libica, come invece è dimostrato da inchieste giornalistiche e atti parlamentari. Fin qui niente di particolarmente strano: evidentemente il giudice non ha ritenuto sufficienti le prove che dimostrano come le minacce provengano da un account legato alla mafia libica, anche se molti elementi porterebbero a diverse conclusioni.

Le argomentazioni più sbalorditive riguardano una sorta di “appunto” rivolto all’operato umanitario del sacerdote e non solo a quello. Nel documento della Procura si sottolinea, infatti, che «se il prete esercita in questo modo, diverso dal magistero tradizionale», deve in un certo senso aspettarsi reazioni contrarie e fra queste di essere bersagliato. La procura osserva come l’esposizione sui social network naturalmente provochi reazioni, specie a carico di chi porta il suo impegno umanitario (e latamente politico) sul terreno dei social o comunque del pubblico palco – ben diverso dagli ambiti tradizionali – riservati e silenziosi – di estrinsecazione del mandato pastorale – e lo faccia propalando le sue opere con toni legittimamente decisi e netti».

Per il pm, insomma, un sacerdote che prende posizione accanto ai poveri e agli ultimi non è abbastanza “discreto” ed è troppo “pubblico” e anche un po’, seppure in senso lato, “politico” e deve aspettarsi e, in fondo, subire reazioni. In altre parole, chi si occupa di diritti umani e si dedica all’impegno umanitario non deve sorprendersi se poi finisce nel mirino, anche se è un prete. Anzi, forse, proprio perché è un prete. Come se essere sacerdote significasse dire Messa, amministrare i sacramenti e stare in silenzio.

Don Mattia, oltre a essere cappellano della Ong “Mediterranea Saving Humans”, è infatti molto impegnato in un’azione pastorale e umanitaria a difesa delle persone migranti, in particolare di quelle che vengono soccorse nel Mediterraneo. Una missione, come si sa, tipicamente diffusa tra chi, all’interno della Chiesa, si occupa degli ultimi e dei più fragili. Ed è proprio per questo suo impegno che si sono accesi su di lui riflettori anche assai ostili. In particolare da parte del già citato account Twitter da cui, appunto, sono partite tutte le minacce.

La decisione della procura modenese suscita molte perplessità in quanto dimostra una mentalità a dir poco ristretta sulla missione pastorale di un sacerdote, una indifferenza burocratica verso i problemi delle persone migranti, un atteggiamento quasi sospettoso verso quel mondo che si dedica all’impegno umanitario. Siamo al “chi glielo fa fare”, al “se la va proprio a cercare”.

Se è vero come è vero che purtroppo anche le pronunce giudiziarie risentono dell’aria che tira nella società e nella politica, non si può dimenticare che in questo momento storico aiutare i migranti è diventata un’azione fastidiosa, che le ong vengono viste con sospetto, che chi grida per la giustizia farebbe bene a parlare piano o addirittura a stare in silenzio, perché deve sentirsi solo il rumore dell’egoismo con gli alberi che cadono per causa sua e men che meno il grido dei disperati che muoiono. La decisione della procura modenese sembra in un certo senso, senz’altro in buona fede, figlia dell’indifferenza del potere verso chi soffre e persino verso chi osa aiutarlo.

Papa Francesco ha costretto la Chiesa e il mondo a volgere lo sguardo verso la drammatica realtà della migrazione,  che dovrebbe interrogare le nostre coscienze più che spaventare le nostre comodità: ma rimane comunque un ritardo, uno stacco tra gli accorati appelli papali, talora assai prossimi ai teatri della disperazione e della morte, e l’impegno concreto all’accoglienza ed all’integrazione di questi fratelli sballottati dalle onde e poi rimpallati tra un confine e l’altro, fra un muro di indifferenza e di ostilità  e un filo spinato di totale rifiuto. Come non fare un collegamento fra don Mattia Ferrari di Modena ed il caro indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia di Parma.

Anche lui era cristianamente e sacerdotalmente esagerato: qualcuno di questa sua tendenza faceva oggetto di censura o di critica, mentre in realtà si trattava proprio della sua capacità culturale di affrontare radicalmente le situazioni in perfetto stile evangelico. Ebbene la denuncia del problema, da cui era solito partire, nel caso dell’immigrazione trovò la suo profetica espressione ed il suo apice nell’occupazione della chiesa di S. Cristina da parte di 30 immigrati nel gennaio 2005 (grande freddo!). Questa sacrosanta provocazione fece scandalo, ad essa seguì una forte polemica contro il parroco don Luciano Scaccaglia e la sua comunità aperta e accogliente, rei di averli ospitati col Vangelo alla mano. Anche quella volta c’era stato il preludio dello sgombero, ad opera dei vigili urbani, dai ruderi di una cartiera abbandonata, inutilizzata, lasciata al degrado, ma considerata più preziosa delle vite di schiavi senza valore. A Parma nel 2005 i perbenisti bigottoni, i leccapreti col conto in banca e gli appartamenti sfitti, i clericali ad oltranza sempre dalla parte del manico curialesco si scatenarono ed aprirono un fronte di reazionaria polemica, andando persino molto al di là della tollerante reazione dell’allora vescovo Cesare Bonicelli. Gli amministratori comunali preferirono il silenzio. Parma non si smentisce mai (certo nel 1922 i parmigiani avevano ben altra sensibilità e coraggio): la reazione dominante fu quella dell’indifferenza. A proposito di indifferenza il grande Mario Tommasini, non a caso grande amico ed ammiratore di don Scaccaglia, si rifaceva a questa visione: «C’è un male che affligge il mondo. Un male che se ti prende ti fa morire dentro. E che se lo subisci ti fa soffrire il dolore più inaccettabile, più insopportabile. Questo male è l’indifferenza, che è sinonimo di freddezza, di disinteresse. L’insensibilità è figlia della rassegnazione, non del disamore. Non è odio, non è volere il male, è però accettare che il male ci sia. Che ci sia il dolore».