Il carcere non è ancora la morte

Il problema delle carceri, udite-udite, è tornato “di moda” non tanto per i continui suicidi che si verificano al loro interno, ma perché alcuni ragazzi sono fuggiti dal carcere minorile di Beccaria a Milano. Già questo approccio la dice lunga: fa più rumore un evaso di una schiera di suicidi.

Nella mentalità corrente e nei programmi di governo è l’ultimo dei problemi alla faccia di Voltaire che sosteneva come “la civiltà di un Paese sia data dalle condizioni delle sue carceri”. Se adottiamo il criterio volterriano l’Italia la possiamo considerare incivile. Non perché dalle carceri si evada con facilità, ma perché in esse si vive in modo disumano: vale per i detenuti e vale anche per gli agenti di custodia.

Facciamo nuove carceri? Sicuramente dal punto di vista strutturale siamo assai carenti, ma preferirei partire dall’altra parte del discorso. Perché tanto sovraffollamento? La lentezza della giustizia tiene in carcere molte persone in attesa di giudizio, una parte rilevante delle quali è poi giudicata innocente o comunque sottoposta non a pena detentiva. Molti reati andrebbero depenalizzati in quanto punibili in altro modo, forse anche più incisivo e scoraggiante. Occorrerebbe valutare e regolamentare il ricorso a pene alternative ed inoltre consentire ai carcerati di uscire per lavorare. Credo infatti che la rieducazione dei condannati si basi soprattutto sul lavoro, che costituisce la premessa per un serio seppur graduale reinserimento nella società.

Così “sgolfate” e ridimensionate le carceri potrebbero essere meglio strutturate, organizzate e sorvegliate. Esistono poi i problemi delle donne-madri e dei minori. Il solo pensiero di tenere in carcere soggetti rientranti in queste due categorie mi rabbrividisce. Per loro valgono a maggior ragione i discorsi fatti sopra.

Ho l’impressione che i provvedimenti atti al reinserimento dei carcerati vengano adottati con leggerezza o con lentezza scatenando l’ira di certa pubblica opinione. Le forze politiche, all’infuori di uno storico e serio interessamento del partito radicale e delle associazioni collegate ad esso, se ne fregano altamente. Temono di scontrarsi con le opinioni correnti, considerano l’argomento ostico e pericoloso, ritengono di fare altre scelte prioritarie. Qualcosa di importante e meritorio fanno i volontari e i sacerdoti, ma certamente non basta.

E così si va avanti alla meno peggio, un suicidio oggi e uno dopodomani, condizioni igienico-sanitarie penose, rapporti conflittuali fra detenuti, prepotenze a go-go, violenze varie, droga nelle celle, etc. etc. Possibile che non si riesca a combinare nulla?

Come ormai spesso accade l’unica istituzione che prende seriamente in considerazione il problema dei carcerati è il Papa, che peraltro deve scontrarsi con la prevalente mentalità anche dei cattolici. In una recentissima omelia natalizia papa Francesco ha detto che siamo bravissimi a considerare i carcerati come delinquenti passati e non come uomini e donne presenti e futuri. È la vergognosa verità!

La Costituzione italiana all’articolo 27 recita: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. All’articolo 13 si prevede: “É punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”.

L’abuso della carcerazione preventiva, la situazione delle carceri, una rieducazione a dir poco carente e l’indiretta spinta al suicidio sono una patente violazione, un vero e proprio sgarbo costituzionale. Noi sappiamo probabilmente solo una minima parte dello scempio che avviene all’interno delle patrie galere.

Oltre tutto può capitare a tutti di commettere un reato e di finire in carcere, a volte anche per errore più o meno clamoroso degli organi inquirenti e giudicanti. Non è quindi un problema riservato ai delinquenti, che magari trovano la strada per arrangiarsi e sopravvivere, è un tema della società se vuole essere chiamata civile.