Tra rave party e presidi operai

Tagadà, la trasmissione televisiva de La7, nel pomeriggio del 03 novembre scorso, ha avuto il meritevole coraggio di affrontare il problema della recente, sconclusionata, inopportuna, evasiva e repressiva norma anti rave party, varata in fretta e furia dal governo Meloni, dando voce agli oltre 400 operai che da 16 mesi hanno costituito un presidio per salvare il loro posto di lavoro e lo stabilimento produttivo della GKN (a Campi Bisenzio tra Firenze e Prato), una multinazionale inglese impegnata nel settore automotive e produttrice di semiassi ed elementi di trasmissione, che nel luglio del 2021 ha deciso di delocalizzare selvaggiamente, inviando una lettera di licenziamento ai lavoratori, i quali da parte loro si sono mobilitati  contro il baratro della imminente ed immanente povertà.

L’azienda è a rischio chiusura senza un intervento pubblico nell’ambito di una politica industriale, che non risponda soltanto ai meccanismi brutali del mercato. I lavoratori, oltre continuare ad esprimere la loro protesta ed a chiedere l’aiuto dei governanti (assenti) e la solidarietà delle forze sociali (molto presenti a livello studentesco, ambientalistico ed associazionistico), hanno espresso un serio, profondo ed acuto giudizio sul provvedimento governativo che tanto sta facendo discutere.

Hanno introdotto una considerazione che oserei definire sociologica, facendo la distinzione tra difesa della legalità e attacco alla legittimità sociale della protesta: l’assurda severità e genericità della norma  è un diversivo per coprire l’assenza dello Stato sui grandi problemi e/o un modo per mettere la sordina alla rivolta sociale, per seppellire sotto la cenere dell’ordine pubblico il fuoco della sacrosanta difesa dei diritti, per rompere la mobilitazione spegnendo sul nascere la convergenza delle forze sociali.

Gli operai e le operaie della GKN, con un pizzico di sana demagogia, constatato che dai rave party vengono fuori elementi ribelli ma che aspirano a modo loro ad una emancipazione sociale, si sono chiesti cosa venga fuori invece dai consigli di amministrazione delle multinazionali e dei fondi finanziari e chi siano quindi dal punto di vista storico i criminali da scovare e combattere (per non parlare di mafiosi, grandi evasori e corrotti).

Alla domanda se si sentano nel mirino in quanto occupanti abusivi di un luogo di proprietà altrui (lo stabilimento in cui lavoravano) hanno risposto con grande dignità e compostezza di non sentirsi affatto in colpa, di voler comunque continuare la mobilitazione e di sentirsi parte di tutto un mondo a loro vicino, che potrebbe essere toccato, direttamente o indirettamente, dagli indirizzi del nuovo governo e dalle eventuali conseguenti forzature poliziesche e giudiziarie.

Ritengo la reazione di questi operai molto più importante ed interessante delle disquisizioni giuridiche e politiche inanellate in questi giorni: si va al sodo, al di là delle sottigliezze normative dei giuristi, delle inconfessabili motivazioni della destra e degli omertosi distinguo della sinistra.

L’ordine pubblico non può prescindere dall’ordine sociale: non si può fare affidamento sulla repressione, ma occorre innanzitutto comprendere i motivi del disagio sociale e le ragioni dei conflitti sociali. Questo è il punto di partenza. Purtroppo ha cominciato a tirare una gran brutta aria. Il problema infatti non sono i rave party, vale a dire le «feste di delirio» dei grandi raduni di giovani, per lo più clandestini e di carattere trasgressivo, ma la squallida “tristezza governativa” di carattere repressivo. È finita la pacchia? Sì, temo proprio che sia finita la pacchia della democrazia, almeno ne ho il serio timore.

In questi giorni si è celebrato il sessantesimo anniversario della morte di Enrico Mattei: mi piace al riguardo ricordare la sua capacità di coniugare l’imprenditorialità con la difesa e lo sviluppo dell’occupazione. Ebbe il coraggio di salvare l’azienda Pignone sull’orlo del fallimento per salvare, in risposta anche alle insistenze del sindaco di Firenze Giorgio La Pira, il posto di lavoro di tanti operai che rischiavano il licenziamento. Si guardò bene dal consigliare a La Pira di arrendersi alle logiche speculative e tanto meno dal chiedere l’intervento della polizia per fermare la protesta dei lavoratori. Non si fermò e, a costo di andare oltre i meri interessi dell’Eni, intervenne, così come fece di fronte alla logica imperialista americana, all’ordine mafioso esistente in Sicilia, ai rischi di mettere a repentaglio la propria incolumità.

Risulta che Aldo Moro prima e più che puntare alla repressione delle violenze giovanili si angosciasse di fronte ai drammi comportamentali giovanili per non riuscire a capirli e prevenirli. Non rinunciò mai al dialogo, probabilmente dialogò anche coi suoi carcerieri.

Altro che attacco ai rave party, altro che “Dio, patria e famiglia”, altro che mera difesa dell’ordine pubblico, altro che atlantismo a senso unico, altro che europeismo a corrente alternata!