Il pugno di ferro…battuto

Voglio, solo per un attimo, prescindere dalle ragioni di carattere umanitario, che dovrebbero comunque essere alla base di tutte le politiche, più che mai di quelle riguardanti l’immigrazione e la sua regolamentazione. Il modo di porsi del governo Meloni sembra guidato dalla tattica del “pugno di ferro”: con i giovani trasgressivi (vedi norma penale sui rave party), con gli studenti che osano protestare (vedi esordio manganellante all’università La Sapienza di Roma), con gli immigrati che chiedono asilo (vedi il vergognoso atteggiamento – peraltro ben presto abbandonato affibbiandone la colpa alle “bizzarrie” dei medici – verso lo sbarco dalle navi dei “carichi residuali” in cerca di un approdo di sussistenza esistenziale).

L’atteggiamento è improntato chiaramente al criterio del “punirne uno per educarne cento”, al messaggio della “pacchia è finita” (di quale pacchia abbiano finora usufruito i giovani, gli studenti e gli immigrati non è dato conoscere), all’imperativo categorico della difesa dell’ordine e della legalità prima di tutto e ad ogni costo, all’esibizione muscolare nella soluzione dei problemi, anche i più complessi e delicati, all’ingresso nel negozio di cristalleria col garbo dell’elefante. Il tutto non per risolvere i problemi, ma solo per dare l’idea agli elettori di una certa qual sicurezza di fronte ad essi. La campagna elettorale è finita, ma continua alla grande.

Al primo apparire sulla scena governativa di Silvio Berlusconi la gente superava bellamente il suo clamoroso conflitto d’interessi col paradossale ragionamento del “se è capace di fare i suoi interessi, chissà che non sappia fare anche i nostri”. Forse Giorgia Meloni spera che gli italiani adottino nei suoi confronti un ragionamento analogo: se è capace di mettere in riga i rompicoglioni vari, chissà che non sia in grado di farsi valere in Europa e di mettere a posto anche le bollette del gas.

Da una parte, quella sociale e interna, abbiamo la tattica del pugno di ferro, brandito contro i soggetti deboli (presto sarà il turno dei diversi, delle donne, degli accattoni, etc. etc.), dall’altra la schizofrenia europea altalenante fra la durezza sull’immigrazione e la morbidezza sull’economia. A ben pensarci è lo stesso comportamento adottato dai Paesi sovranisti dell’est-europeo, che hanno abbondantemente attinto fondi ed aiuti per poi essere indisponibili ai sacrifici in senso comunitario.

Ma con l’Europa questo giochino non può funzionare: i partner europei non si spaventano affatto davanti al pugno di ferro meloniano, al contrario ce lo rigirano contro arrivando persino a ventilare qualche ricattino. Della serie: con tutti i soldi che ottenete dall’Europa state a fare i furbi con qualche centinaio di immigrati sballottati nelle acque marine di vostra competenza? Il pugno di ferro sui tavoli europei fa sorridere e ci rende oltre tutto antipatici. Non si spaventa proprio nessuno!

A dimostrazione di ciò Giorgia Meloni ha avuto il primo vero e proprio incidente all’estero: il comunicato del governo italiano che, dopo l’annuncio della disponibilità ad accogliere nel porto di Marsiglia la nave Ocean Viking con a bordo 234 migranti, celebrava la vittoria nel braccio di ferro, sembra abbia fatto infuriare Macron,  scatenando un giallo nello scambio di informazioni tra l’Eliseo e Palazzo Chigi e portando i francesi ad un dietro front accompagnato da un durissimo commento: «Non si possono gestire così le relazioni diplomatiche». Siamo al dilettantismo e all’improvvisazione: per governare occorrono i voti, ma bisogna anche e prima di tutto esserne capaci.

Matteo Renzi da presidente del Consiglio adottò la tattica inversa: spillò comprensione e aiuti economici dalla UE, offrendo in cambio molta tolleranza e disponibilità sul fronte dell’accoglienza agli immigrati. Mario Draghi accantonò il nodo della gestione dell’immigrazione per concentrarsi sul PNRR e le condizioni poste al suo finanziamento. Questo non significa che il problema possa essere nascosto o accantonato, ma affrontato in un difficile ma imprescindibile contesto di dialogo e collaborazione, ribaltando completamente il ragionamento: non il categorico rifiuto all’accoglienza se non preceduto da impegni di gestione e redistribuzione dei migranti, ma accoglienza quale biglietto da visita per iniziare una trattativa sul problema di fondo.

Gli esponenti della maggioranza di governo si stanno facendo strumentalmente scudo delle recenti parole di papa Francesco interpretandole come un atto di accusa nei confronti delle inadempienze europee. Ho ascoltato con grande attenzione il discorso del Papa, che parte dalla necessità di accogliere, accompagnare, promuovere e integrare gli immigrati per poi sottolineare la necessità che il problema trovi la soluzione a livello europeo in quanto i singoli Stati non sono in grado di affrontarlo organicamente e nella continuità. Siamo ben lontani dal provocatorio e disumano pugno di ferro preludio ad un ultimatum verso l’Unione Europea ed i suoi membri.

Sembra che, nel recente incontro avvenuto fra Giorgia Meloni e Ursula von der Layen, alle insistenze del nostro premier sulla redistribuzione dei carichi migratori la sorridente presidente della Commissione Europea abbia fatto presente che forse l’Italia non ha molto da guadagnare da questa ricontrattazione, considerate le cifre attuali degli immigrati presenti nei diversi Paesi (l’Italia non ne ospita infatti molti…) e soprattutto considerato l’enorme impegno della Polonia ad accogliere i profughi ucraini. Attenzione quindi alle vittorie di Pirro!

Sarà bene, intanto che è presto, darsi una regolata ed una calmata a trecentosessanta gradi e smetterla di governare con le tabelline dei sondaggi alla mano: le previsioni elettorali che negli Usa davano l’arrivo dell’onda rossa repubblicana sono state sostanzialmente smentite. I consensi vanno e vengono, mentre i problemi rimangono e non vanno affrontati facendo la voce grossa, men che meno coi deboli anche perché poi arrivano i forti che ce la fanno abbassare.