L’incubo della destra aspettando la sinistra

I commentatori del piffero post-elettorale preferiscono fare i medici al capezzale del partito democratico all’opposizione piuttosto che occuparsi della muscolosa destra in procinto di governare. Il vincitore fa distaccata invidia mentre il perdente suscita artificiosa compassione.

“No all’accanimento terapeutico, sì all’alleanza terapeutica”: così recita uno slogan coniato sulla pelle dei malati terminali. Forse si attaglia al caso del PD per il quale tutti sciorinano la loro diagnosi e cura, mentre in realtà quasi tutti stanno pensando all’utilità marginale relativa alla raccolta dei cocci.

Perché, attraversando la pericolosa e trafficata strada della politica attuale, ci si preoccupa più di guardare a sinistra che a destra? Forse perché a destra sappiamo quel che può arrivare (come dice Marco Travaglio, l’affarismo dei soliti noti), mentre a sinistra non riusciamo a vedere nessuna sagoma (i capaci di niente, come sosteneva Marco Pannella).

Fatto sta che tutti si cimentano nell’arduo compito di insegnare al partito democratico a fare la sinistra: di simili lezioni ne ha certamente bisogno, ma non troppe al punto da farne un’indigestione. Ai consiglieri del PD interessa solo sapere chi sarà il nuovo segretario per poterne sparlare il più presto possibile e con chi si alleerà per poter sparare a zero sull’alleanza con i cinque stelle o con Calenda o con Renzi o con tutti e tre.

Abbiamo presente cosa succede ai funerali: in pochi piangono, in pochissimi pregano, in molti chiacchierano. Sta succedendo così, con un funerale piuttosto precipitoso per chi ha il coraggio di ammettere la sconfitta e con la festa fasulla per chi ha la sfrontatezza di trasformare la sconfitta in (dis)sonante vittoria.

Vedo di mettere ordine nel dibattito, ripulendolo dai troppi “babalani” di turno, facendo riferimento a tre persone, che hanno la credibilità e la coerenza per dare qualche consiglio utile al partito democratico.

Massimo Cacciari, filosofo e scrittore, sostiene che il PD sia un partito mai nato: in esso non ci sarebbe mai stato un vero e proprio confronto, nemmeno nei momenti di conflitto più acuto all’interno del gruppo dirigente, e si è passati da un segretario all’altro alla caccia di un leader maximo che funzionasse.  La questione quindi non sarebbe solo quella di cambiare Enrico Letta, ma quella di mettere radicalmente in discussione l’intero gruppo dirigente tramite un congresso aperto in cui rivisitare il patrimonio socialdemocratico, rivedere i fondamenti del welfare sociale e delle relative politiche fiscali e sociali senza indulgere all’assistenzialismo, discutere di politica estera riprendendo le grandi idee della socialdemocrazia tedesca fino alla caduta del muro di Berlino.

Beppe Severgnini, giornalista del Corriere della sera, con la sua solita e simpatica verve così sintetizza la sua analisi: “il PD deve parlare all’Italia in difficoltà, altrimenti non va da nessuna parte”. Effettivamente un tempo si diceva che nei momenti di sofferta problematicità, la gente più esposta si dovrebbe rivolgere alla sinistra, mentre nei momenti di vacche grasse può bastare anche la destra. Della serie: quando ci sono da fare grossi sacrifici ci si rivolge ai famigliari per avere aiuto e consiglio e non ai vicini di casa che vivono in villa e nemmeno agli abitanti del proprio condominio.

Giorgio Pagliari, ex parlamentare piddino sconfitto alle elezioni del 2018 pur essendo, a detta di tutti gli osservatori, il primo della classe (troppo bravo per meritare un doveroso ripescaggio), politico di alto livello (una risorsa sprecata), del quale di seguito riporto integralmente l’analisi pubblicata sul sito del circolo culturale “Il borgo”. “Per quanto riguarda il PD, mi sembra evidente che, pur se ha sbagliato la campagna elettorale, la pretesa di addossare al Segretario l’esclusiva responsabilità della sconfitta risponda solo all’esigenza dei veri responsabili di allontanare l’attenzione da sé e alla ritrosia di affrontare le cause della situazione. E senza affrontare le cause il futuro sarà comunque precario. Il Segretario, con un gesto di grande sensibilità, ha comunque eliminato la sua questione personale, lasciando sul campo il problema (oggettivo) di questo partito. Il PD può recuperare un ruolo di protagonista solo affrontando i nodi veri:

  1. la mancanza di una missione condivisa, che è la base di ogni forma di associazione e, quindi, anche di un partito, che risponda alla funzione assegnata dall’art. 49 della Costituzione e che non sia una semplice sommatoria di carriere individuali;
  2. la accettazione del PD come partito pluralista e, pertanto, inscindibilmente fondato sul confronto delle idee e sulla reale e profonda tolleranza delle opinioni altrui e sulla conseguente accettazione della regola della democrazia interna, che richiede la capacità tanto di essere maggioranza quanto di essere minoranza;
  3. in questa logica, si collocano con assoluta chiarezza due profili tra loro, per la verità, collegati. Da un lato, l’irrisolta questione della fusione a freddo e, dall’altro, quello del partito riformista o del partito massimalista. Si tratta di due facce della stessa medaglia. Il PD, infatti, non può essere il partito della nostalgia e non potrà sopravvivere se prevarrà la logica della volontà di sottometterne una parte alla visione dell’altra. Questo partito – piaccia o no – è nato per contaminare, per introdurre nuove sintesi, per offrire una risposta riformista, che avesse il pregio di essere il frutto della confusione (nel senso etimologico del termine) tra le diverse sensibilità, chiamate non a nascondersi, ma neanche ad avallare un contesto di pura e perdurante antitesi tra posizioni cristallizzate. Ed è nato per essere un partito riformista, cioè un partito che, sulla base dei valori costituzionali costituenti l’unico suo riferimento valoriale, sappia farsi carico della società italiana tutta non in una logica classista, ma in una logica solidarista. Il che comporta la capacità di avere come unico scopo l’equilibrio sociale, la lotta delle disuguaglianze e la crescita della società nel suo complesso, chiamando tutti alle proprie responsabilità, imponendo le scelte conseguenti, epperò sempre sfuggendo alla logica della “caccia alle streghe” e alle logiche assistenzialistiche, che tanto piacciono all’avvocato del popolo;
  4. il recupero delle capacità di proposta politica chiara e netta in totale superamento del deleterio approccio “burocratico” più volte affiorato, così da uscire dalla dimensione del partito del “ni”, che ha caratterizzato la storia di questo partito con la sola parentesi del primo Renzi: gli elettori, infatti, più che mai in questo passaggio, non sono riusciti a trovare la risposta alla domanda sulla natura del PD;
  5. il ritorno alla Politica con l’abbandono del tatticismo esasperato, la cui affermazione dal 1998 in avanti ha annullato la capacità di visione politica del centrosinistra. È necessario, in altri termini, recuperare il coraggio della sfida su idee e proposte, abbandonando il vizio (perdente) della sommatoria delle sigle di partito. Il monito di De Gasperi (“Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista guarda alle prossime generazioni”) dovrebbe diventare il mantra del PD.

Verrebbe da dire o così o pomì. Per così ci sta un processo di autentica rifondazione della sinistra: alla ricerca di quel polo progressista, che, con ineguagliabile lungimiranza, Aldo Moro aveva previsto nella sua terza fase, rimasta purtroppo nella sua visione e nella sua persona, ammazzate da chi non si saprà mai fino in fondo. Per pomì ci sta una destra reazionaria, non quella sostanzialmente di centro, moderata e popolare, ipotizzata da Moro, ma quella che si sta profilando come un vero e proprio incubo.