Circa due anni fa, in un commento ai fatti del giorno, scrivevo: “Aveva ragione Gorbaciov quando teorizzava un percorso progressivo di cambiamento e ristrutturazione; avevano ragione gli amici di Ceausescu quando definivano un semplice colpo di stato la caduta del regime rumeno; ha ragione chi sostiene che è stato troppo rapido e sbrigativo il percorso europeo di alcuni stati post-comunisti dell’Est”.
Alla luce di quanto sta accadendo sulla scena post-sovietica penso di potere ribadire con ulteriore convinzione quanto affermato allora. Me ne offre lo spunto il doloroso evento della morte di Mikhail Gorbaciov.
Troppo precipitoso e sconclusionato è stato il passaggio dal regime comunista sovietico alla democratura putiniana, così come troppo affrettato e superficiale è stato l’affrancamento delle repubbliche sovietiche dal giogo russo e il loro passaggio nell’area occidentale.
Le convenienze politiche, forse addirittura più economiche che politiche, hanno coperto storia, cultura e socialità e queste stanno presentando il conto salato, mettendo in discussione assetti precari spacciati per definitivi.
Gorbaciov ha il merito, purtroppo non adeguatamente riconosciuto, di avere intuito che la storia non si fa con i ribaltoni, ma con processi lunghi e impegnativi anche se logoranti. La pentola sovietica conteneva di tutto un po’, si è voluto semplicemente scolmarla e questa ha continuato a bollire e allora vi si è messo sopra il coperchio.
Ma cosa capita ad una pentola di acqua surriscaldata quando su di essa viene messo un coperchio? Ebbene le molecole di vapore acqueo che si liberano dal pelo libero dell’acqua, sono costrette a rimanere tra il coperchio e la superficie libera dell’acqua. Tali molecole istante dopo istante crescono di numero e quindi esercitano una pressione via via crescente, oltre che sulle pareti laterali della pentola, anche sul sovrastante coperchio. Quando la pressione del vapore esercitata sulla base del coperchio, diviene uguale o maggiore di quella esercitata verso il basso dall’atmosfera, il coperchio è costretto a sollevarsi.
La metafora è molto chiara, oserei dire lampante. L’egemonia culturale russa non si è spenta, la conseguente smania imperialista è fortissima, l’ansia dei popoli oppressi si è ancor più rinvigorita e ha trovato sbocchi pericolosamente indipendentisti al limite del reazionario (leggasi Ungheria e non solo). La democrazia non si conquista passando semplicemente dall’altra parte della barricata, così come può essere velleitario rivendicare la propria autonomia culturale senza accompagnarla con un rafforzamento delle istituzioni politiche (leggasi Ucraina).
Le conseguenze di queste involuzioni pseudo-democratiche hanno delle inquietanti ripercussioni in Europa, laddove, per dirla con Maurizio Franco, l’ombra nera proveniente da Ungheria e Polonia si allunga pericolosamente invadendo Francia, Spagna, Portogallo e Italia.
Se guardiamo alla drammatica contrapposizione di Russia e Ucraina, da una parte abbiamo il patriarca Kirill, che assume una posizione a dir poco inaccettabile schierando apertamente la chiesa russa ortodossa in favore dell’imperialismo putiniano con la pretestuosa scusa di contrastare il capitalismo demoniaco dell’Occidente, dall’altra parte in Ucraina, come teorizza l’autorevole domenicano padre Balog, che ipotizza la messa all’indice della cultura russa, arrivando persino a dubitare dell’opportunità delle posizioni evangeliche di papa Francesco, ci si sta chiudendo in una strenua ma sterile difesa dell’autonomia, che temo non porti da nessuna parte se non nel pantano di una guerra infinita tra Russia e Occidente con la Cina convitato di finta pietra.
Lo scontro culturale, prima che politico e bellico, fra Russia ed Ucraina rischia di coinvolgere il mondo intero. La pretesa di difendere la propria tradizione culturale e indipendenza politica da parte degli Ucraini è sacrosanta, ma non può trovare stabile e definitivo riscontro in un clima di guerra pressoché mondiale. Le mire imperialiste russe non si possono respingere solo con il rifiuto categorico della cultura russa e con l’uso delle armi più o meno pelose dell’Occidente.
Bisogna tornare alla lezione metodologica gorbacioviana per rimettere insieme i cocci di un percorso pseudo-democratico da cui sarà ancor più difficile uscire: è forse più facile uscire da patenti dittature che da finte democrazie. È più facile uscire da violente oppressioni culturali che dalla rivendicazione sic et simpliciter di autonomie unilaterali. E qual è la ricetta per uscire da questi ragionamenti chiusi? Il dialogo! Il paziente, lungo e difficile percorso del confronto pacifico e costruttivo.