Il triste fine-gloria di un tenore davvero

Quello in cui viviamo è un mondo stonato. Stona la scienza che non riesce a difenderci dalle malattie, stona l’ambiente che è stato forse irrimediabilmente rovinato, stona la meteorologia che crea più allarmismi che opportunismi, stona la politica che continua imperterrita a sfornare pentole senza coperchio. Di fronte alla stonatura globale verrebbe spontaneo rifugiarsi in chi dovrebbe fare canto e musica con perfetta intonazione. Invece anche un cantante-musicista come Placido Domingo incorre nelle sue brave stonature. Rimane uno degli idoli della mia connaturale passione per l’opera lirica, messi inopinatamente in discussione.

Quello di Placido Domingo è un dramma: all’Arena di Verona è stato contestato dai suoi stessi orchestrali come immeritevole di applausi, impreparato, poco professionale. Deve ritirarsi. Ma sarebbe stato meglio se si fosse ritirato prima. Quand’è che chi ha l’amore del pubblico, l’ammirazione della critica, deve smettere? Uscire dalla luce e rientrare nell’ombra? Io non sono un cantante, non mi esibisco nei teatri, ma so che i teatri sono ubriacanti, che l’attore che sale sulla scena e si vede illuminato dai riflettori e vede il pubblico sparire in sala ingoiato dal buio e capisce che l’unica persona visibile e vista è lui, ha un attimo di annebbiamento, teme di non essere nel vero, teme di risvegliarsi e scoprire che era tutto un sogno.

(…) La vita dell’attore e del cantante sta nel continuare ad essere, aiutando il pubblico a non essere. È stata la vita di Placido Domingo. Perché tu sia, devi essere perfetto. Non devi sbagliare una nota, una sillaba, un gesto. Se posso aggiungere un’altra considerazione, non devi sbagliare neanche nella vita privata: non puoi rubare in tram, picchiare in casa, violentare una donna, essere condannato in tribunale, perché la tua nuova figura di autore di un reato copre e oscura la tua figura di artista. Di recente Domingo è apparso nelle cronache per molestie sessuali.

(…) Allora, quand’è che Domingo avrebbe dovuto smettere? Ben prima, quando il pubblico si alzava, non convintissimo ma si alzava. Quand’è che uno scrittore non deve più scrivere libri? Quando i critici gli fan capire che non sono più libri, non sono opere. Son prodotti, magari fanno un po’ di soldi, ma non durano. Se si fosse ritirato al tempo della grandezza, Domingo sarebbe restato grandissimo. Ha aspettato di essere contestato, e grandissimo non lo è più. (così Ferdinando Camon sul quotidiano Avvenire).

Mi sovviene quanto raccontava mio padre relativamente al periodo della seconda guerra mondiale, dopo l’occupazione tedesca del nostro territorio. Per tenere occupata la gente e distoglierla dalla resistenza al nazifascismo, facevano lavorare gli uomini “al canäl”, vale a dire nel greto del torrente per fingere opere (in)utili che alla fine venivano regolarmente eliminate con le ruspe.

Di qui il detto“va’ al canäl” utilizzato per mandare qualcuno a quel paese in cui si fanno appunto cose inutili ed assurde. In quel triste periodo ritornò a cantare al teatro Regio il grande tenore Francesco Merli, che aveva mietuto allori negli anni precedenti a Parma e nel resto del mondo. Al riguardo è memorabile una sua esibizione in concerto assieme a Renata Tebaldi, accompagnati al pianoforte, al ridotto del Regio: alla fine l’entusiasmo raggiunse l’isteria e voglio credere a mio padre che rammentava come una parte del pubblico fosse in piedi sopra le poltroncine ad applaudire freneticamente dopo l’esecuzione del duetto finale di Andrea Chenier. Quando ritornò alla ribalta del Regio, però, Francesco Merli, piuttosto anziano, non era più in grande forma vocale e non venne trattato con i guanti. In modo pesante ed inaccettabile, dettato più da cattiveria che da inesorabile atteggiamento critico, il loggione nei confronti del grande tenore Francesco Merli, reo di essersi presentato sul palcoscenico del Regio, nei panni di Manrico nel Trovatore di Verdi, con voce ormai piuttosto traballante, usò la suddetta pesantissima espressione: “va’ al canäl”.

Mio padre raccontava questo disgustoso episodio per bollare l’esagerata ed esibizionistica verve loggionista, ma anche per significare come qualsiasi persona, quando si accorge di non essere più in grado di svolgere al meglio il proprio compito, sarebbe opportuno che si ritirasse, prima che qualcuno glielo faccia capire in malo modo.

Placido Domingo era per me un mito, me lo ha rovinato lui stesso con incredibili scorribande sessuali al limite del maniacale, e ora addirittura con discutibili prestazioni come direttore d’orchestra, dopo essersi cimentato anche come baritono. Ne ha veramente combinate di tutti i colori pur di rimanere sulla cresta dell’onda da uomo e da artista. Come sempre accade i peccati vengono ingigantiti dalla notorietà del peccatore. Non è giusto ma è così: chi di gloria ferisce di fine-gloria perisce.

Non mi resterà che ascoltare di tanto in tanto una interpretazione magistrale di Placido Domingo: l’aria “angelo casto e bel”, tratta dall’opera “Il duca d’Alba” di Gaetano Donizzetti, le cui parole suonano beffardamente per le brutte pieghe assunte da una carriera sfolgorante. Non voglio fare il pedante moralista né l’acido melomane: mi faccio bastare le meravigliose performance di un tenore davvero.