Se è vero che le parole volano, è altrettanto vero che possono essere veri e propri macigni. È forse il caso del manifesto elettorale leghista da cui emerge con evidenza ed insistenza la parola “credo”. Ne è sortito un curioso dibattito sulle pagine del quotidiano “Avvenire”.
Scrive al riguardo Giuseppe Lorizio, professore ordinario di teologia: “Certamente diventa fondamentale la fides quae creditur, ossia i contenuti di tale atto di fede. In senso forte e cristiano il verbo credere va riferito alla persona di Gesù, in senso debole e laico a quello per cui un soggetto gioca la propria esistenza nell’impegno intramondano e sociale. Confondere i due ambiti può risultare estremamente pericoloso e fuorviante (…) ma proprio onde evitare ogni possibile deriva populista, sarà bene che, mentre leggiamo sulle facciate delle nostre città la parola «credo», cerchiamo di distinguere i diversi significati e le diverse condizioni che questo verbo propone a tutti noi”.
Il leader della Lega Matteo Salvini controbatte: “In una società liquida, sfiduciata, corrosa di relativismo, e infine sempre negativa, è importante tornare a ‘credere’ in qualcosa. È insieme l’ottimismo della ragione e della volontà. Credere è dunque l’opposto di dubitare. È voglia di fare, di costruire, di operare per ridare coesione alla nostra società, per rilanciare l’Italia, partendo da valori chiari, sentiti, vissuti concretamente. E allora il punto decisivo è capire se si condividono i valori a cui ci si affida per ricostruire una res publica. E qui non posso che citare alcuni passaggi a mio avviso decisivi del nostro manifesto: «Credo nella bella politica e nel bello della democrazia, credo nella libertà, nella giustizia sociale, e nel merito, credo che la persona venga sempre prima dello Stato, credo che tutti gli Italiani vadano tutelati a partire dai più fragili, credo nel valore del rispetto e dei doveri che danno senso ai diritti, nella giustizia giusta, in una sanità che non lascia indietro nessuno, in una scuola che prepari davvero al lavoro, in pensioni dignitose, nella difesa dell’Italia: l’immigrazione è positiva quando è legale e controllata, e milioni di donne e di uomini stranieri che vivono in Italia e arricchiscono le nostre comunità ne sono un esempio»”.
Non è assolutamente vero che credere sia l’opposto di dubitare. Il cardinal Martini sosteneva: «E’ un dono, la fede, ma è anche una conquista che si può perdere ogni giorno e ogni giorno si può riconquistare. Il dubbio fa parte della nostra umana condizione, saremmo angeli e non uomini se avessimo fugato per sempre il dubbio. Quelli che non si cimentano con questo rovello hanno una fede poco intensa, la mettono spesso da parte e non ne vivono l’essenza. La fede intensa non lascia questo spazio grigio e vuoto». Se è così in campo religioso, figuriamoci in campo civile e politico.
Molti anni or sono, in un confronto televisivo tra l’intelligente e brillante giornalista-conduttore Gianfranco Funari e l’allora segretario del partito popolare Mino Martinazzoli, uomo di grande profondità etica e culturale, il politico, interrogato e messo alle strette, non si fece scrupolo di rispondere in modo piuttosto anticonvenzionale ed assai poco accattivante, ma provocatoriamente affascinante, nel modo seguente (riporto a senso): «Se lei sapesse quante poche certezze ho e da quanti dubbi sono macerato… Nutro perplessità verso chi ostenta troppe certezze».
Non vorrei che la Lega di Matteo Salvini intendesse lisciare il pelo all’integralismo cattolico, coniugandolo politicamente col populismo: ne uscirebbe un ardito e vomitevole mix. La Democrazia Cristiana, salvo qualche rara eccezione (referendum sul divorzio), seppe valorizzare l’ispirazione cristiana, traducendola in una prassi politica fin troppo laica. Qualcuno sintetizzava la differenza tra De Gasperi e Andreotti osservando maliziosamente come il primo andasse in chiesa per pregare, mentre il secondo vi si recava per brigare coi preti.
Sarebbe meglio che Salvini lasciasse stare i santi e cercasse di non scherzare coi fanti. Mi sembra infatti che non abbia una gran dimestichezza con gli uni e che tenda a turlupinare gli altri. D’altra parte non vorrei che, rubando il “mestiere” a Giorgia Meloni, volesse in qualche modo rifarsi al “credere obbedire combattere”, uno dei precetti più bellicosi del “catechismo” fascista. Questa campagna elettorale è appena cominciata ed è già finita nella peggiore sarabanda anti-democratica.