Le dimissioni di Mario Draghi, così come da lui formulate, sembrano chiudere definitivamente l’esperienza del suo governo etichettabile in vario modo: “tecnico” dalla presenza nella compagine governativa di personaggi esperti nelle materie di competenza ministeriale, non politicamente targati né schierati; “istituzionale” dall’origine quirinalizia che lo ha caratterizzato; “di unità nazionale” dall’appoggio parlamentare molto largo seppur variegato; “di emergenza” dalle situazioni gravissime oggetto della sua straordinaria azione.
Perché volenti o nolenti questo governo è andato in crisi? Non mi basta la motivazione relativa al delirio pentastellato. Le cause vanno cercate innanzitutto nella obiettiva delusione innescata dai ministri tecnici sostanzialmente incapaci di elaborare azioni governative credibili e ficcanti: il discorso in parte vale anche per il premier. Un conto è parlare di morte, altro è morire. La presunzione tecnico-professionale si è via via fatta sentire creando non poca delusione a tutti i livelli.
A tal proposito mi vengono in aiuto alcuni episodietti risalenti alla vita professionale di mio padre, imbianchino pittore. Al termine dei lavori di costruzione di una moderna chiesa periferica di Parma, così essenziale da essere definita da mio padre “l’amàs dal gràn”, gli architetti si accorsero con sorpresa che il soffitto a capanna sembrava piatto, perché la pendenza dei due lati era insufficiente (la terminologia non è precisa e chiedo scusa agli architetti, a quei due in particolare). Mio padre si scandalizzò, ma non disse nulla e tra sé pensò che“l’amàs dal gràn” stava emergendo inequivocabilmente ed irrimediabilmente. Era tardi e non si poteva ovviare, pena rifare completamente il tetto (rimedio inattuabile). La pensata per uscire dalla clamorosa impasse fu di dipingere il soffitto a due diverse tonalità di colore in modo da somministrare lucciole per lanterne. Mio padre eseguì e tacque, ma non digerì la questione, che divenne paradigmatica per bollare l’atteggiamento dei progettisti supponenti. “Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?” direbbe mia nonna (erano due ingegneri che si scambiavano complimenti ma che si erano dimenticati l’uscio nella porcilaia). Termino il breve repertorio sull’argomento spostandomi al cimitero. Mio padre andava poco a visitare le tombe dei defunti ed era solito giustificarsi così: “Al simitéri a gh’ vagh anca trop par lavorär”. Alla villetta stava lavorando per affrescare una cappella ed aveva realizzato un’idea di un architetto, ma, a dire di quest’ultimo, usando tinte un po’ troppo scure. “A pära d’ésor al simitäri” disse il professionista. Mio padre tacque perché il più bel tacer non fu mai scritto.
La seconda causa sta in un equivoco di fondo: l’unità nazionale doveva essere mantenuta e coltivata dal premier e non viceversa. Draghi non ha avuto l’abilità “diabolica” di fare di testa propria dando l’impressione ai partiti di contare e decidere. Questi, strada facendo, si sono accorti di essere in frigorifero e hanno voluto recuperare un po’ di protagonismo. Lega e M5S hanno sollevato dubbi, perplessità, obiezioni, dettate più dalla smania di visibilità che da effettive esigenze di chiarezza programmatica. Partito democratico e Forza Italia hanno elaborato subdolamente le loro prospettive tattiche scommettendo per il presente e per l’immediato futuro su Draghi, pensando così di rappresentare e impersonificare anche a livello elettorale l’appeal politico dei rispettivi raggruppamenti (campo largo a sinistra, centro-destra a guida berlusconiana) e finendo con lo scatenare ulteriori gelosie e sospetti. Spesso dando troppo ragione a qualcuno non gli si fa un gran piacere.
La terza causa sta nell’auto-allontanamento di Draghi dalla casa paterna quirinalizia: fuor di metafora, la situazione è in parte sfuggita di mano a Mattarella. Troppo importante il premier per stare a guinzaglio, troppo scalpitanti e adolescenziali i partiti per stare buoni e bravi. Questo sfilacciamento istituzionale si è intravisto spesso a livello di politica interna e internazionale. Le visioni di Draghi e Mattarella, nonostante le formali rassicurazioni, non hanno perfettamente concordato. Personalmente credo che l’intenzione di lasciare la presidenza da parte di Mattarella non fosse tanto dovuta a calcoli fisiologici o psicologici, ma politici, vale a dire dall’opportunità di togliere il disturbo (la stessa cripto-candidatura di Draghi al Colle aveva questo significato).
Il giocattolo si è rotto: troppi giocatori! I partiti si sono ritrovati costretti a giocare a mosca cieca: non sanno più cosa dire e fare. Sono rimasti senza riferimenti di protesta e di accondiscendenza. Si scambiano tra di loro colpe, urla, pianti e stridore di denti. A Mattarella non resta che provare a rimettere insieme i cocci per arrivare alla scadenza elettorale all’onore del mondo. Auguri! I partiti rimangono con un palmo di naso, scoperti nelle loro “vergogne”. O si affrettano a coprirsi in qualche modo, raccattando in fretta e furia qualche foglia di fico, oppure si presentano nudi ad un’immediata passerella elettorale. Chi ce l’avrà più lungo? Agli elettori l’ardua scelta. Forse Giorgia Meloni…