Tra realbuonismik e strumentalcattivismik

Dopo oltre un anno dall’inizio della procedura, la Chambre de l’Instruction della Corte d’Appello di Parigi ha deciso di negare l’estradizione richiesta dall’Italia per i dieci ex terroristi degli anni di Piombo. Gli otto uomini e due donne ex militanti dell’area dell’estrema sinistra per i quali Roma ha chiesto l’estradizione erano stati fermati nella primavera dell’anno scorso dalle autorità francesi, con il via libera arrivato dall’Eliseo per tentare di chiudere le lunghe polemiche intorno all’accoglienza Oltralpe dei fuoriusciti italiani accolti negli anni Ottanta secondo la “dottrina Mitterrand”. Tra i fermati, poi rimessi subito in libertà vigilata in attesa della decisione di giustizia, c’era l’ex militante di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani, 78 anni, condannato in Italia come uno dei mandanti dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Per ragioni di salute, Pietrostefani è comparso solo alla prima udienza davanti ai giudici francesi.

Nell’annunciare il parere sfavorevole sulle dieci domande di estradizione la Corte d’Appello ha richiamato gli articoli 8 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non potrà essere l’Italia ma solo la Francia, attraverso il procuratore generale della Corte d’Appello di Parigi, a decidere se impugnare o meno la decisione della Chambre de l’Instruction della Corte d’Appello. Spetterà dunque al procuratore generale francese decidere entro due mesi se presentare ricorso per Cassazione. In caso contrario, la procedura sarà archiviata.

Si chiude così l’ultimo capitolo del braccio di ferro tra Italia e Francia sulla questione delle estradizioni. Per alcuni degli italiani oggetto della domanda di estradizione, la corte d’appello di Parigi, già interpellata in passato, aveva espresso un parere favorevole all’estradizione ma poi bloccata a livelli successivi di giudizio o in alcuni casi, come per l’ex brigatista Marina Petrella, bloccata da una decisione politica. In altri casi, come per l’ex brigatista Maurizio Di Marzio o l’ex militante dei Pac Luigi Bergamin, c’era già un dubbio sulla prescrizione.

Alla lettura della sentenza in aula ci sono stati abbracci dei protagonisti con mariti, mogli, figli e qualche nipote: molti hanno pianto. Altri, rimasti fuori, hanno esultato quando hanno capito che per tutti c’era stata la non accettazione della richiesta italiana. “Sono contentissimo per il mio cliente – ha detto l’avvocato Jean-Louis Chalanset, che difende Enzo Calvitti – ho temuto che andasse in carcere a finire i suoi giorni”. Per Irène Terrel, storica legale degli ex terroristi italiani rifugiati in Francia, nella sentenza che nega l’estradizione “sono stati applicati i principi superiori del diritto”, con riferimento al rispetto della vita personale, privata e della salute degli imputati e alle controverse norme del processo in contumacia.

Presente in tribunale anche un gruppo di italiani guidato dal deputato della Lega Daniele Belotti, ha gridato “assassini!’. Del gruppo, che aveva srotolato uno striscione di protesta davanti al palazzo di Giustizia prima dell’udienza, facevano parte anche il sindaco di Telgate, in provincia di Bergamo, comune di origine di uno degli ex terroristi, Narciso Manenti, e il presidente e vicepresidente dell’associazione carabinieri di Bergamo intitolata a Giuseppe Gurrieri, l’appuntato ucciso nel 1979 da Manenti davanti al figlio di 11 anni. “Altro che solidarietà europea”, ha commentato il leader della Lega Matteo Salvini accusando la Francia: “Proteggere terroristi che hanno ucciso in Italia è una vergogna”. 

Prima di commentare questa decisione della magistratura francese devo premettere che non ho mai provato e non provo alcun gusto sadico nel vedere andare in carcere gli imputati dei reati per cui sono stati condannati (anche i più feroci), forse perché non ho un concetto vendicativo della giustizia, ma al contrario mi sento di aderire al discorso, peraltro costituzionale, della pena intesa come percorso di recupero del condannato.

Una seconda premessa riguarda il fatto che non ho mai capito, né dal punto di vista umanitario né sul piano giudiziario e politico, le motivazioni e le finalità della cosiddetta “dottrina Mitterand”, che ha finito con lo stendere un velo di “impietoso” silenzio sui misfatti rientranti nel capitolo storico del terrorismo.

Sono convinto che il fenomeno terroristico vada studiato in tutti i suoi aspetti e non liquidato sbrigativamente come una striscia di orrendi reati. Ciò non toglie che gravissimi reati siano stati compiuti e debbano essere puniti, senza compiacimento ma anche senza indulgenza.

Fatte queste doverose premesse esprimo il timore che dietro queste scaramucce franco-italiane sulla pelle delle vittime del terrorismo possa nascondersi la paura di verità scomode, che potrebbero venire a galla dai pantani del passato, di scheletri che potrebbero uscire dagli armadi in cui è stata nascosta la realpolitik con cui si è affrontato e combattuto il terrorismo. Motivazioni quindi di opportunità politica, che nulla avrebbero a che vedere con i diritti umani e con la ricerca e l’applicazione della giustizia.

Non voglio fare della dietrologia a tutti i costi, non voglio spargere tardive ed amare lacrime sulle vittime, men che meno associarmi a chi vuol strumentalizzare queste vicende al fine di recuperare facili consensi, non intendo infierire colpevolizzando più del necessario chi ha predicato odio sociale e politico e dovrebbe avere il buongusto di auto-accusarsi, non ritengo però che i colpi di spugna possano essere utili a vittime, carnefici e società tutta. Arrivo persino a comprendere come forse certi episodi di terrorismo possano essere frutto di una guerra politica scatenata da menti esaltate e portata avanti da gente plagiata da certi ideologi della violenza rivoluzionaria. Tutto ciò deve essere considerato a livello culturale, ma nel frattempo chi è stato condannato sconti la sua pena senza scappatoie pur con tutte le possibili alternative che la legge consente, poi si potrà discutere sul passato e soprattutto dei suoi riflessi sul futuro.