Le bastonate di Draghi

L’intervento al Senato di Mario Draghi per comunicare fiduciariamente le motivazioni del corto circuito intervenuto fra governo e parlamento è sembrato improntato alla filosofia del “toc ‘d pan e ‘na bastonäda”: era la mirabile sintesi che una donna faceva in negativo del comportamento dei suoi parenti, i quali l’avevano soccorsa (?) nei momenti difficili della sua vita.

L’intervento di Draghi, peraltro molto dignitoso e orgoglioso, si è dipanato in stile “ottovolantesco”; è partito durissimo con una impietosa fotografia dei rapporti con la larga (?) maggioranza che lo dovrebbe sostenere: ho pensato che si trattasse ormai di rottura definitiva del giocattolo. Poi è venuto il panegirico dell’azione di governo, addirittura un ringraziamento al Parlamento che l’ha consentita. Ho cominciato a respirare, forse non tutto era perduto.

Appena il tempo di riprendere fiato ed ecco arrivare il perentorio invito rivolto ai partiti per una loro inequivocabile assunzione di responsabilità in un patto chiaro per un’amicizia almeno fino al termine normale della legislatura. Soprattutto due partiti venivano messi con le spalle al muro: M5S e Lega ai quali Draghi non faceva alcun sconto a livello programmatico. Della serie “o così o pomì”.

Alla fine un grazie al Paese che è suonato quasi come una minaccia per chi avrà l’ardire di prescindere dall’umore della gente: populisti, guardate bene che il popolo sta dalla mia parte, sappiatevi regolare.  Un Draghi sorprendentemente più populista dei populisti, che non ha rinunciato nemmeno al più piccolo dei suoi convincimenti e dei suoi propositi. Un discorso poco politico e molto linearmente presidenziale in un sistema istituzionale parlamentare.

Evidentemente l’influsso di Sergio Mattarella non si è fatto sentire, a meno che per entrambi i presidenti non sia giunta una sorta di redde rationem con la politica, il momento di chiudere i conti con essa e rimettere tutto nelle mani degli elettori, fornendo loro un gran brutto biglietto da visita relativamente ai partiti.

L’atteggiamento di Draghi è stato divisivo per i pentastellati (e fin qui ci si poteva e doveva arrivare), ma anche e direi soprattutto per la Lega in chiara difficoltà elettorale e per Forza Italia ondivagamente dibattuta fra il governismo di prima scelta e il centrodestrismo di ripiego. Tre leader in bilico: Giuseppe Conte col suo incomprensibile e colpevole tatticismo, Matteo Salvini col suo imbarazzato e imbarazzante sfogatoio di recupero populista, e Silvio Berlusconi, che ha siglato la fine del suo già tanto compromesso carisma e della sua capacità di giravolta. Le non-sfiducie si sono rincorse e hanno paradossalmente sfiduciato, più politicamente che numericamente, il governo.

Avete visto le facce dei ministri pentastellati, leghisti e forzisti, costretti loro malgrado ad andare a casa dopo essersi fatti giustamente il mazzo a servizio del governo. Contrordine compagni! La negativa e blasfema dimostrazione che non si può ragionare con la propria testa, ma con la testa rivolta alle elezioni.

A questo punto forse, cedendo un attimo alla tentazione del retroscenismo e del futurismo, ho capito cosa potrebbe voler dire campo largo, non quello di Enrico Letta, bruciato sull’altare pagano pentastellato, ma quello di Draghi che involontariamente si candida a leader del centro-sinistra (dal Pd al, come scrive Flores d’Arcais, Calendarenzitoti + altri ed eventuali).

Il governo Draghi è caduto, almeno il primo: è crisi di governo vera e propria. Mattarella potrebbe risuscitare in qualche modo e per alcuni mesi un Lazzaro riveduto e limitato, destinato forse a morire fra qualche tempo senza i paradisi allargati di cui sopra. Mentre Maria (gli elezionisti) piange in casa, Marta (i governisti) va incontro a Mattarella: Mario vieni fuori!  E poi?