La fisarmonica di Draghi

“L’attuale contesto internazionale ci interroga profondamente su come sia possibile garantire oggi il bene indivisibile della pace. Le aggressioni ai civili, le devastazioni delle città nel cuore della nostra Europa, pensavamo appartenessero a un passato remoto – osserva il Capo dello Stato. Ma la drammatica cronaca di questi giorni ci ricorda come stabilità e pace non sono garantite per sempre. La pace – ha continuato Mattarella – non si impone da sola ma è frutto della volontà e dell’impegno concreto degli uomini e degli Stati. Una pace basata sul rispetto delle persone e della loro dignità, dei confini territoriali, dello stato di diritto, della sovranità democratica; una pace basata sull’utilizzo della diplomazia come mezzo di risoluzione delle crisi tra Nazioni; una pace basata sul rispetto dei diritti umani”.

Ho raccolto l’invito del Presidente Mattarella, che, in occasione delle celebrazioni (troppo retoriche, troppo militaresche, troppo trionfalistiche) per la festa della Repubblica, ha giustamente collegato il passato con l’inquietante attualità della nostra storia. Mi sono chiesto se effettivamente, come ha sottolineato il Capo dello Stato, “la Repubblica sia impegnata a costruire condizioni di pace e le sue Forze Armate, sulla base dei mandati affidati da Governo e Parlamento, concorrano a questo compito”.

Con tutta la più buona volontà e senza alcun pregiudizio pacifista (il pacifismo lo coltivo nella mia coscienza e tento di attuarlo nella mia esistenza prima di pretenderlo dai governanti) non riesco a trovare questo grande impegno italiano a servizio della pace, di cui Mattarella si fa giustamente auspice.

Vedo il governo italiano allineato e coperto (imprigionato) in uno schema di guerra, preoccupato di svolgere un ruolo protagonistico all’interno di questa logica, mentre io desidererei (forse anche la maggioranza degli italiani lo vorrebbe) un atteggiamento costruttivamente critico pur nel rispetto delle tradizionali alleanze e dell’appartenenza all’Unione Europea. Si può essere democraticamente occidentali senza essere necessariamente e perpetuamente filo-americani; si deve essere europeisti convinti senza bisogno di schiacciare la UE in uno schema di frontale contrapposizione con l’Est-europeo (dopo avere, tra l’altro, flirtato a più non posso col macellaio Putin).

Non capisco quindi il tono pur elegantemente sciorinato dal premier Mario Draghi al termine dei lavori della recente sessione del Consiglio d’Europa: il panegirico delle sanzioni e la fuga in avanti per l’Ucraina da accogliere nella UE. Devo ammettere che mi sono paradossalmente (?) trovato più vicino agli Stati scettici che non all’Italia convinta. In Europa c’è chi parla e chi telefona troppo (Macron), chi tace per la paura di dover aprire scomodi armadi (Merkel), chi dice e disdice in continuazione (Scholz), chi pensa solo ai fatti suoi (Orban), chi media l’impossibile (Von der Leyen). Draghi ha scelto di cucirsi addosso l’immagine di piccola oasi nel deserto. E così sembra pontificare ad intra e soprattutto ad extra.

Le sanzioni sono un’arma a doppio taglio da maneggiare con molta prudenza, perché possono essere un boomerang per l’Ucraina, per gli Stati Europei, per gli Usa (checché ne dica, senza pensarci, il pressapochista Joe Biden), per l’Africa e per il mondo intero. Quasi tutti danno per scontato che si tratti della tattica giusta per isolare Putin e costringerlo a più miti consigli. Mi è sembrato di capire però dagli economisti (pur facendo la sacrosanta tara alle loro previsioni) che l’effetto delle sanzioni, in positivo (?) e in negativo (!), si avrà nel medio e lungo termine: nel frattempo ci dobbiamo rassegnare alla guerra, ai morti, alle distruzioni, alle deportazioni, alle migrazioni, alle macerie sparse in Ucraina? La vulgata sembra questa: una guerra necessaria per salvare la democrazia.

Quanto all’ingresso immediato dell’Ucraina in Europa andrei molto cauto per non regalare a Putin ulteriori appigli tattici e per verificare la democraticità e la capacità della classe dirigente di questo Paese, precipitosamente santificata sull’altare resistenziale: dovremo fornire per lungo tempo massicci aiuti e occorrerà avere qualche precisa garanzia sulla tenuta democratica di chi li gestirà. Faccio un banale esempio: se nelle vicinanze della nostra residenza una famiglia subisce una violenta aggressione in casa propria, mi sembra doveroso intervenire in sua difesa, ma non per questo la dobbiamo ospitare nel nostro condominio o addirittura in casa nostra senza chiarire preventivamente il suo modo di essere e di vivere.

Draghi, nelle sue peregrinazioni mondiali ed europee, mi sembra appiattito (mi auguro più strumentalmente che convintamente) sulla impostazione “bellicista” (chi si permette di obiettare viene etichettato in senso spregiativo come “pacifista”, io mi vendico e definisco “bellicista” chi accetta acriticamente la guerra scaricandone ogni e qualsiasi colpa su Putin). Perché? La sua formazione culturale è filo-americana, la sua esperienza tecnica si è formata nel sistema finanziario capitalistico, la sua sensibilità politica è talmente controllata da fare insorgere seri dubbi. Mi chiedo allora se mi sfugga qualcosa per ignoranza o per atteggiamento ipercritico. Azzardo un malizioso pronostico.  Forse Draghi vuol salvare l’Italia dal baratro dello sfondamento dei bilanci (sempre più inevitabile) e tenta di fare il bis rispetto alle manovre imbastite da capo della Bce. Questa volta non si tratterebbe più di quantitative easing, ma di introdurre i bilanci a fisarmonica.  Fino a pochi mesi fa affermava di voler quadrare il cerchio dei conti pubblici, scommettendo sulla ripresa economica e sulle conseguenti entrate fiscali provenienti da redditi in via di rapido ripristino. Ora che la ripresa si è allontanata non gli resta che puntare sulla propria leadership a livello europeo e mondiale, tutta da implementare e sfruttare ulteriormente: è l’uomo più considerato e blandito.  Speriamo riesca, usando la sua indubbia autorevolezza e il suo tecnocratico charme, a scaricare sul groppone europeo i nostri enormi disavanzi, ad arginare con abilità diabolica gli intenti rigoristi sempre in agguato, rinviando sine die il ritorno al rispetto di certi parametri. Se gli dovesse riuscire, l’esito delle prossime elezioni politiche, su cui i partiti stanno confusamente lavorando, sarebbe scontato. Ora e sempre Mario Draghi.