A lezione dal professor (S)Cassese

Nella mia fitta corrispondenza con una carissima amica ho manifestato spudoratamente l’intenzione di recarmi al voto referendario sulla giustizia con la volontà di sparare nel mucchio introducendo cinque “sì” nelle urne.

Sono in contraddizione con me stesso per diversi motivi. Innanzitutto perché non credo nello strumento referendario soprattutto se usato a raffica come è successo negli ultimi tempi. È infatti un’arma a doppio taglio, che da una parte concede ascolto alla sacrosanta volontà popolare, ma dall’altra parte, spuntata dall’abuso che se ne sta facendo, rischia di togliere legittimità e ruolo alla politica pur chiusa nelle fredde stanze istituzionali.

In secondo luogo perché le leggi, soprattutto in materie delicate e complesse, le deve fare il Parlamento, senza buttare la palla nella tribuna popolare costretta a tifare per il sì o per il no. Sottoporre le questioni al diretto giudizio dei cittadini può avere un senso solo relativamente ad istituti che riguardano e toccano la coscienza della popolazione, rimandando ad essa certe scelte di campo che le spettano. L’esempio del divorzio è emblematico.

In terzo luogo risulta velleitario proporre “azzeccagarbugliescamente” ai cittadini di entrare nei meandri legislativi con quesiti referendari aggrovigliati e confusi, tali da spezzare le reni a un bue. Non si può pretendere che i potenziali elettori si trasformino in legulei per districarsi nel ginepraio di quesiti rompicapo. Questa difficoltà non dovrebbe pregiudizialmente indurre all’astensione, anche se ne è l’inevitabile anticamera. È pur vero che il palazzo, indipendentemente da tutto, non gradisce il vento referendario, considerandolo un assalto alla diligenza. Lo considera tale chi lo subisce così come chi lo promuove: c’è troppa strumentalità politica nel ricorso a queste iniziative ed al loro boicottaggio.

Il potere si difende a priori usando la disinformazione o la mancanza di informazione: fatto sta che la gente non sa nemmeno che ci sarà una consultazione referendaria, al massimo ne ha sentito parlare vagamente e le basta per accantonare la questione, relegandola nella cantina del qualunquismo. I media non ne parlano. La loro bottegaia routine ci attanaglia: ho smesso di seguire tutti i talk show, ma persino gli speciali e le altre trasmissioni di approfondimento politico.  Al riguardo ho pensato come tutto sia vomitevolmente spettacolarizzato: vorrei chiedere a Mentana e c. perché non dedicano spazio ai referendum. Risposta scontata: perché non fanno audience e non attirano la pubblicità. Purtroppo anche la Rai è coinvolta in questo vortice chiacchierone.

Per saperne di più bisogna ricorrere a Radio Radicale e alle sue rassegne stampa, che riescono a scovare gli aghi nel pagliaio. Tra questi ho colto il pensiero del professor Sabino Cassese, insigne giurista e accademico italiano, già ministro per la funzione pubblica nel governo Ciampi e giudice della Corte costituzionale. Il suo ragionamento mi conferma autorevolmente nelle considerazioni di cui sopra, che dovrebbero portare alla aristocratica astensione o alla piccata contrarietà, invece inducono alla riflessione su un’occasione da non perdere per lanciare due provocatori messaggi agli interlocutori giusti: ai giudici affinché abbandonino ogni e qualsiasi resistenza corporativa rispetto alla necessità di riformare un sistema, che non funziona, non rispetta i fondamenti costituzionale e non riscuote la fiducia dei cittadini; ai politici perché si decidano a legiferare sul serio  su questa materia al di là  della riforma mordi e fuggi imbastita dal ministro Marta Cartabia, che ha scatenato lo stucchevole e penoso balletto delle parti in contesa (una legge troppo garantista per i giustizialisti e troppo giustizialista per i garantisti).

Sabino Cassese fa lucidamente l’elogio del “putost che niént è mej putost”: piuttosto che lasciare le cose come stanno o addirittura consentire o favorire fughe all’indietro, meglio sfruttare l’occasione per costringere le istituzioni a percorrere la difficile ma necessaria strada della riforma seria della giustizia. Questo ragionamento minimalista è convincente e da valutare con sano realismo. Lo sto facendo e lo farò, superando le puntute argomentazioni di principio, vincendo gli istinti di repulsione per l’istituto referendario e ricordando che la politica è l’arte del possibile e che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora.