Le carinerie italo-americane

Nei giorni scorsi, leggendo le timide ma interessanti parole di (quasi) pace del cugino Emmanuel Macron, mi sono detto ingenuamente: se tanto mi dà tanto, se mio cugino balbetta bene, mio fratello Mario Draghi parlerà con sicurezza e franchezza in quel di Washington a colloquio con Joe Biden.

Come non detto. Stando alle cronache mediatiche al di là dello scontato e stucchevole scambio di carinerie non c’è stato niente di veramente interessante. Si sono incontrati due vecchi amici, si sono fatti tanti complimenti, le strette di mano si sono sprecate: sembrava che nel mondo andasse tutto a meraviglia per merito di questa storica e rinnovata amicizia italo-americana. Parole “blizgoze” davanti alle telecamere, poi non si sa, ma il clima artificioso dei colloqui non poteva portare ai chiarimenti necessari e a serie prospettive di pace. I giornali riportano una sequela di frasi fatte: il niente ben incartato e presentato.

Tutto come da copione, con l’esercito dei leccaculo mediatici a intonare gli osanna e a sparare elogi incrociati. Intanto la guerra va avanti ed è servita a rafforzare i buoni rapporti se mai fossero stati incrinati dall’esperienza trumpiana.

Mi auguro che, a tu per tu, Draghi abbia detto qualcosa di più rispetto al nulla trapelato. Una cosa l’ho ascoltata: ha detto che in Italia e in Europa si punta alla pace. Potrebbe sembrare una frase scontata, ma non è così. Evidentemente se Draghi si è sentito in dovere di affermare una simile ovvietà vuol dire che ha dato per scontato che negli Usa non ci sia una chiara e costruttiva volontà di pace. Non voglio però esagerare e intravedere nel verbo draghiano ciò che non c’è.

La soporifera conferenza stampa del giorno dopo tenuta dal premier italiano è stata più descrittiva dello status quo che non indicativa di scelte precise rientranti in uno schema di pace. L’ho seguita con trepidante attenzione, ma ne sono uscito molto deluso. In campo calcistico esistono due atteggiamenti tattici assai diversi: il pressing, vale a dire un’azione continua e pressante; la melina, cioè una tattica di gioco consistente nel perder tempo. Non voglio esagerare, ma mi è parso che il governo italiano sia bloccato su una tattica temporeggiatrice, traccheggiatrice, nonostante non ci sia più nemmeno un minuto da perdere. Draghi dimostra di avere ben presenti i problemi, ma di non avere il coraggio di proporre soluzioni concrete per avviare un cammino di pace: quasi avesse il timore di sbilanciarsi rispetto ai partner europei e di prendere le distanze da certe rissose e unilaterali posizioni americane. Si intravvede come abbia idee interessanti, ma le accenna soltanto, probabilmente teme di bruciare le proprie carte in un contesto infuocato.

Qualcuno sostiene che sotto la sua guida l’Italia sia perfettamente in linea con gli atteggiamenti storicamente tenuti nei confronti dell’alleato americano. Ho molti seri dubbi al riguardo. Penso solo ad Aldo Moro che ebbe il coraggio di perseguire una politica di dialogo coi comunisti, nonostante fosse vista come il fumo negli occhi da parte americana e da parte dei brigatisti. Pagò a caro prezzo.

Quando Draghi è stato sollecitato ad un maggior protagonismo sulla scena se l’è cavata con una delle solite battute: non bisogna puntare al protagonismo, ma alla pace. Se tutti aspettano le mosse altrui, la pace sarà una chimera: non ci sarà o sarà finta.

Non intendo fare il disfattista, ma resto perplesso davanti ad un sostanziale assordante silenzio più omertoso che diplomatico. Ci si rallegra della concordia nella famiglia italo-americana mentre nel palazzo del continente europeo c’è guerra aperta. Chi si contenta gode. Io non mi accontento affatto e non godo. Non avrei mai più pensato di dover fare riferimento alla Francia per trovare qualche spiraglio diplomatico, qualche rigurgito di autonomia, qualche ficcante segnale di europeismo.

C’era un mio conoscente che aveva soprannominato sua moglie in modo strano e provocatorio: la chiamava “Francia” sull’onda delle sue continue scaramucce matrimoniali. Oggi, secondo il mio acume, dovrebbe cambiare il soprannome. Non rimane infatti che sperare amaramente in Macron.

Vedendo le immagini dell’incontro fra Draghi e Biden mi è venuto spontaneo pensare a quello dell’opera verdiana fra Falstaff e Ford: una pantomima assurda, che culmina nei due che si danno reciprocamente la precedenza e finiscono col passare insieme incastrandosi nella porta.

Falstaff: Prima voi.

Ford: Prima voi.

Falstaff: No, sono in casa mia. Passate.

Ford: Prego…

Falstaff: É tardi. L’appuntamento preme.

Ford: Non fate complimenti…

Falstaff: Ebben; passiamo insieme.